La commedia cinematografica italiana fu, nel periodo dell’affermazione di titoli come Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi, Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi, come il segno di appartenenza per i soggettisti, gli sceneggiatori, i registi: espressione di una creatività vivace in cui la forte industria del cinema riponeva le sue risorse, ma anche un genere che permetteva di coniugare l’umorismo alla satira sociale, durante il “boom economico” attraversato e dileggiato da indiscussi mattatori come Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi e Sophia Loren.
Tra le commedie, La visita (1963) di Antonio Pietrangeli nasce in circostanze che rischiarano in merito alla particolare fecondità produttiva del cinema italiano dei primi anni Sessanta. Prendendo avvio da un racconto di Carlo Cassola, il soggetto scritto da Ettore Scola e Ruggero Maccari con Giuseppe De Santis che intendeva trarne un film, venne poi affidato a Antonio Pietrangeli dal produttore Moris Ergas in seguito alla decisione del regista di Riso amaro (1949) e Roma ore 11 (1952) di andare in Russia atteso per la realizzazione di Italiani brava gente. Non è insolito in questo periodo trovarsi a realizzare film inizialmente concepiti per altri e Antonio Pietrangeli, che nel 1963 è all’apice della sua purtroppo breve carriera (morirà a 49 anni il 12 luglio 1968), è tra i cineasti che incarnano al meglio la capacità di fare propri con sensibilità i soggetti e le sceneggiature che le case di produzione si ritrovano a valutare (e a sua volta gli capitò non di rado di veder realizzati da altri i soggetti personali).

Il cineasta romano è pronto a svolgere con pragmatismo il lavoro che gli viene assegnato, mentre con lui il racconto cinematografico diventa una forma scoppiettante in grado di raccontare la vita e le persone, un resoconto di dettagli che a fianco dell’attenzione sociologica trasmette il calore della luce interiore.
Allorquando è consuetudine sottolineare l’origine occasionale de La visita, passato di mano da un regista a un altro, De Santis e Pietrangeli sono invece accomunati per la grande sensibilità verso i ritratti femminili, e sin da Il sole negli occhi (1953), Pietrangeli plasma con la sua espressività poetica caratteri di donne raccontate con attenzione partecipe alle sfumature dolenti. Ne è proprio una testimonianza alta La visita, che si avvicina alla quotidianità di una quasi quarantenne, Pina (Sandra Milo), sola e malinconica, indipendente e tante volte incompresa, la quale vorrebbe dare una svolta alla sua vita e si avventura in un possibile amore inseguito per corrispondenza.
Pur accompagnandosi al gusto della commedia popolare in quel periodo, con La visita Pietrangeli non soltanto intercetta modificazioni delle aspettative e dei comportamenti socialmente costruiti per le donne – con il passaggio da schemi tradizionali a un’evoluzione dei comportamenti – ma innerva la sua visione personale tra le contraddizioni dell’Italia del “miracolo economico”, portandosi verso una capacità di sguardo che ritrae esempi universali di isolamento e fatica di vivere.
Dopo l’irriverente Catherine Spaak de La parmigiana (1963), Pietrangeli vuole con sé Sandra Milo la quale ha appena girato 8½ (1963) di Fellini e di cui il regista conosce le doti per averla già avuta come interprete ispiratrice ne Lo scapolo (1955, il film d’esordio dell’attrice), Adua e le compagne (1960) e Fantasmi a Roma (1961).

Ne La visita Sandra Milo restituisce una delle sue prove più sentite e misurate, con il fisico arrotondato (è soprannominata la “culandrona”) e l’animo dolce e bendisposto di Pina, un’impiegata del consorzio agrario di un paese vicino a San Benedetto Po (Mantova), alle prese con l’arrivo di Adolfo (François Perier, doppiato benissimo da Paolo Ferrari), commesso quarantenne di una libreria di Roma. Finalmente i due stanno per conoscersi e dal loro incontro Pietrangeli ricava una delle prove più illuminanti del suo talento registico moderno e universalizzante, scostandosi in realtà dal gusto per l’aberrazione sociale che verrebbe di primo acchito da considerare, per la fotografia grottesca del “mostro” di cui Dino Risi è l’espressione cinematografica più in auge (peraltro con l’appoggio degli stessi Scola e Maccari in fase di sceneggiatura), ma andando a fondo nella dimensione emotiva dei personaggi di cui percepiamo il malessere. Con l’utilizzo di cinque flash-back innestati sul principio di associazione che svolgono una funzione narrativa di approfondimento, La visita è come una descrizione investigante nell’animo di Pina, nella sua vita in cui trovano posto malinconie e il desiderio di cambiare prospettiva (in una sequenza in cui Adolfo parla di camionisti, il pensiero di Pina ci porta a conoscere la sua relazione con un camionista interpretato da Gastone Moschin).
L’incontro con Adolfo porta in scena i tour de force straordinari di Sandra Milo e di François Périer, dietro le maschere che nell’arco di ventiquattr’ore attraversano la quotidianità della vita di provincia scandita dal Carosello, dalle balere e dalle abitudini in cui si fanno strada le insidie del consumismo e dei pregiudizi borghesi.
Adolfo, con il nome e i baffetti alla Hitler, arriva nel paesello della Bassa Padana presto tradendo le promettenti promesse dello scambio epistolare avuto con Pina, si mostra anzi con l’atteggiamento di un esaminatore sospettoso per poi dare espressione ai suoi istinti primordiali, non si trattiene dal bere e dà sfogo alla sua “bestialità” di cui cogliamo pungenti notazioni come quando, in flashback, ci vengono narrati gli incontri sessuali con una camiciaia dalle labbra sfregiate, una donna con cui Adolfo fa sesso senza riuscire a baciarla per il senso di repulsione che prova per la sua bocca. Per contro, Pina è attraversata da una vitalità venata di solitudine e disperazione, e il suo atavico isolamento pieno di speranza ne ha fatto una persona che non si sottrae dal guardare in faccia adesso realmente Adolfo, il quale in un’ammissione disarmante nel pre-finale manifesta come dietro la sua grettezza e il suo razzismo si trinceri una persona triste, confinata in un malessere di cui Pietrangeli rivela l’autentica ammissione da parte del personaggio che ce lo rende così cupamente vero, dietro la sua maschera meschina di piccolo borghese avido e volgare.
Amarezza e disillusione sono aspetti della commedia all’italiana degli anni Sessanta, ma con Pietrangeli il racconto ha una valenza sociale e al contempo introspettiva, dove il personaggio, caricato come Pina ne La visita da un trucco che ne sottolinea l’aspetto più invecchiato e l’acconciatura da “barboncino”, si ritrova a svelare quell’umanità vera che lo rende inquieto. Così che, nonostante la solitudine, almeno Pina non è completamente sotto scacco e pur vivendo il disagio di una condizione in cui non è compresa, quella che vive al termine delle ventiquattr’ore con Adolfo non è una condizione dovuta a un rinnegamento della sua genuina passione per la vita, ma un’affermazione franca e dignitosa di libertà. Proprio quella consapevolezza che in Pietrangeli – il quale sottrae Sandra Milo dalla mitizzazione onirico-erotica di marca felliniana – diventa espressione di una vita in carne ed ossa comprendente lacrime, desideri ma pur sempre speranza. Il futuro che si prospetta a Pina a fianco di Adolfo è desolante e la pochezza umana del commesso, anch’egli prigioniero dell’isolamento dettato dalla sua mentalità, porterà a un congedo nella sequenza finale del film, che vede Pina alla guida della sua auto dopo averlo lasciato con la promessa di rimanere in contatto epistolare.
Per capacità di sintesi e di profondità psicologica, Pietrangeli di sicuro non teme confronti con la miglior incomunicabilità di Michelangelo Antonioni, nonostante, come sempre, la critica dell’epoca continuasse a considerare con sufficienza il cinema dell’autore, con il generale tono di sottovalutazione riservato alla commedia e la scarsa attitudine a distinguere le caratteristiche di una personalità capace di infondere una profondità di prospettiva sui disagi e sulle psicologie. Adolfo, non più di Pina, vive a contatto con l’indifferenza, e i suoi atteggiamenti, il suo pressoché esclusivo interesse per il denaro e il suo razzismo, non lo liberano da un disagio esistenziale a cui però Pina oppone la sua genuina umanità.
Con la sceneggiatura precisa di Scola e Maccari e i tempi perfetti della regia, La visita è opera che anticipa le sperimentazioni di Io la conoscevo bene (1965) ed è capace di un elegante pudore, di movimenti della macchina da presa che accarezzano i volti e i corpi, di sottigliezze esemplari nel minimalismo che restituisce piccoli drammi in quel bisogno di “normalità” in grado di racchiudere il desiderio di emozioni malinconicamente sfumate con il fischio del treno e il lo spazio di una notte. Sogni che si infrangono tra le note di canzoni che accompagnano gli stati emotivi (Pina che piange mentre canta sottovoce “Io che amo solo te” di Sergio Endrigo) e con fulminante acume puntellano situazioni e comportamenti (“Non è facile avere 18 anni” canta Rita Pavone mentre Adolfo si distrae con l’adolescente di casa).
L’amarezza che porta Pina al disincanto mostra la criticità del ruolo femminile negli anni Sessanta in provincia, con un film raro e prezioso che non viene premiato dal successo commerciale come altri esiti di Pietrangeli anche perché “Vi si sentiva fin troppo bene la mediocrità della vita, in cui il grande pubblico aveva paura di riconoscersi[1]”.
[1] Enrico Giacovelli, Un secolo di cinema italiano, 1900-1999, collana Cult, 1. ed, Lindau, 2002.







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