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Premio Adelio Ferrero 2025: il primo classificato sezione saggi

Roberto Lasagna Notizie Nov 5th, 2025 0 Comment

Pubblichiamo il primo classificato nella sezione “saggi” del Premio Adelio Ferrero 2025

Ricomincio da tre. Massimo Troisi tra tradizione e futuro

di Giuseppe Fiorenza

Gaetano (Massimo Troisi), giovane napoletano, stanco del proprio lavoro e dell’opprimente famiglia, cambia aria e si reca a Firenze dove conosce Marta (Fiorenza Marchegiani) con cui intrattiene una relazione. La storia d’amore si alterna alle vicissitudini del giovane, alle prese con l’invadente amico Raffaele detto Lello (Lello Arena), con i problemi coniugali della zia e nelle rocambolesche avventure al fianco di un evangelizzatore americano.

Nelle parole di Simone Emiliani, l’esordio alla regia di Troisi del 1981 ha una “malinconia nascosta” oltre che “l’istinto del cinema on the road e i tempi del buddy movie”1. Vi è una ricerca esistenziale, quella di chi viaggia lontano dai suoi affetti per ritrovare silenzioso la propria identità: Troisi, davanti e dietro la camera, ha tentato più volte di sabotare certi stereotipi fino a “dare vita e volto ad un nuovo tipo di napoletano, uno che se ne va da Napoli non perché emigrante […] ma perché esule”, citando Gianni Canova2.

Sarebbe qui utile riportare le parole dello stesso Troisi sulla questione. Nel 1982 fu ospite insieme al sassofonista James Senese a “Blitz”, programma condotto da Gianni Minà. Ad una domanda sul tentativo di “lasciarsi indietro tutto” e “scappare da Napoli” l’attore rispose di non voler “rinnegare la tradizione”, ma di continuarla a proprio modo, non avendo nessuna pretesa di “creare il napoletano nuovo”3. Vero è che questa nuova e celebrata maschera non abbandona i riferimenti del passato: Gaetano è esule, certo, ma con la promessa di un ritorno. Perché, in furor di metafora, non ci si dimentica certo della strada percorsa.

Analizzeremo dunque due punti di vista sul film d’esordio in grado di tracciare un percorso che lega Troisi alla propria tradizione comica. In sostanza, il nostro sarà anch’esso un viaggio: vedremo l’andata e il ritorno di Gaetano/Troisi, sia sul piano della tradizione che su quello geografico, con lo scopo di dimostrare la sostanziale coerenza tra passato e futuro.

Il primo punto, più astratto, riguarda la destrutturazione della maschera storicamente intesa che rilancia sé stessa sotto nuove chiavi di lettura: quella mentale, psicanalitica persino, e quella postmoderna. Quest’ultima riconoscibile dal sottile gusto per la rivisitazione di modelli consolidati della comicità partenopea: Totò ed Eduardo su tutti.

Il secondo punto di vista, più concreto, è quello storico con un richiamo alla contemporaneità, o ancor meglio: alla stretta attualità. Il film venne girato nei mesi subito successivi al devastante Terremoto dell’Irpinia e, se pur ambientato in prevalenza a Firenze, non vi è alcuna indifferenza verso tale tragedia, anzi diventa persino un rispecchiamento sentimentale, insinuato con sottigliezza in una traccia tutt’altro in superficie.

Il “napoletano nuovo”

Il confronto più immediato è quello con Totò: alcuni momenti con Lello Arena 4 sono memori delle alchimie, se non delle situazioni specifiche, di alcune schermaglie tra Totò e Peppino De Filippo. La formula, non di rado ripetuta film per film era la seguente: Peppino, il più posato, tenta invano di mettere un freno alle intraprendenze del vivace Totò. Quale momento memorabile citiamo ad esempio Totò che testa, e spezza, i pettini di “osso di rinoceronte” del barbiere Peppino in Totò Peppino e i Fuorilegge. Le battute sono non meno importanti, veri e propri ritorni di tonica, hanno le proprietà musicali del leitmotiv, tengono alto il ritmo: “ma che tristezza questo negozio!”, esclama Totò quasi cantilenando. Non ci si lasci però tradire dall’apparente semplicismo di queste gag, i due personaggi sono tratteggiati con sottili complessità, due piccolo borghesi che tentano di emergere: Peppino creandosi un gelosissimo spazio di rispettabilità, la “missione di civiltà e di igiene” del barbiere, Totò invadendolo non avendo davvero creato il suo, perché è la moglie ad essere ricca oltre che molto avara (interpretata da Titina de Filippo). Con tale moglie, l’arte di arrangiarsi tipicamente napoletana è messa a durissima prova, e i risultati li sperimenta Peppino, vittima designata.

Veniamo ora alla nuova coppia, quella di Ricomincio da Tre: il momento in cui Lello manipola tutti gli oggetti a casa di Marta esasperando Gaetano è un richiamo emblematico al passato. Sul piano della gag, il principio è il medesimo: Arena nel ruolo di Totò, Troisi in quello di Peppino. Il sistema comico è ancora frizzante e si gioca sul nervosismo e sulla musicalità, ovvero sul leitmotiv: “E’ ornamentale!”, esclamazione che diventa quasi ossessione, neurosi. Questo perché Lello insiste a voler dare un senso a qualsiasi oggetto gli capiti tra le mani col rischio di romperlo, laddove Gaetano non ritiene sia il caso di darsi certe incombenze mentali: ne ha già troppe.

I tempi dunque cambiano, ma non solo. La scrittura di Troisi apre il proprio ventaglio a significati ulteriori, oltre le simpatiche contraddizioni di vita borghese degli anni ’50, memori della Commedia dell’Arte. In pieno spirito di rinnovamento, Troisi riflette anche sull’arte: un’indagine che ha finalità descrittive sul personaggio stesso di Gaetano, vediamo in che modo.

Nel suo essere a suo modo un sempliciotto, Lello capisce, in una finezza silenziosa di scrittura, che l’arte contemporanea che affonda nel decorativismo la casa di Marta forse, prima che apprezzata, va’ innanzitutto compresa. Quindi letteralmente “riempita” con qualcosa. Non a caso si appassiona, ad esempio, a delle bottigliette di vetro: “Ma perché non ci metti qualcosa dentro? Tutte vuote?”. Questa frase, detta con innocente ingenuità, potrebbe essere un commento alla celebre composizione di John Cage 4’ 33’’che, appunto, si riempie con la richiesta stessa di riempirla, richiesta che pure ha un suono, e dunque un segno. L’opera di Cage è celebre per essere composta di solo “silenzio”.

Gaetano, invece, è meno analitico e più sentimentale: prima di capire, apprezza. Ed ecco dunque che la ripetizione “musicale” è anche punteggiatura e pausa, sintomo della sua timidezza: “è bello qua…”. Ecco cosa dice, in continuazione, almeno tre quattro volte e sempre tra i denti, per riempire gli imbarazzanti momenti di silenzio, quando si ritrova la prima volta a casa di Marta che è piena di quadri vagamente astratti e decorazioni appariscenti.

Il riferimento non è vago: l’unione dei due, Lello e Gaetano, crea l’alchimia necessaria per il perfetto consumatore di arte contemporanea, che non è meno ossessiva e cerebrale di quanto non sia umanissima e, per questo, a volte poco comprensibile. La descrizione perfetta per il personaggio stesso di Troisi. Cosa è diventata dunque l’arte (contemporanea) di arrangiarsi? Nient’altro che questo: ricominciare a dare un senso alle cose, prima di affrontarle. Ma attenzione: ricominciare, ma da tre, per non perdere quel che si è già ottenuto in passato. E che si è imparato, appunto.

Ma andando oltre Totò, in Ricomincio da tre il viaggio è anche volontà di fuga da uno stereotipo persino secolare: il Pulcinella furbo e sfrontato, ciarliero e dalla fame atavica. Il personaggio inventato ed interpretato da Troisi è all’opposto timido, poco loquace, impacciato, evidenzia il cibo come affine alla neurosi più che alla fame 5. Il suo barcamenarsi, come si è detto, non è pratico, manuale, ma pigro e mentale. Da qui germinano le felici intuizioni degli sceneggiatori, Troisi stesso con Anna Pavignano6, per cui Gaetano tenta invano la telecinesi su oggetti quotidiani per “risolvere tutti i problemi”7.

Gaetano, provato dalla rigida educazione familiare, ritiene piuttosto il suo carattere risultato d’una scarsa stima datagli dai genitori e dall’inderogabile necessità di doverlo sempre confrontare agli altri, i cosiddetti “mostri”, quelli capaci già da bambini di “dire le tabelline a memoria, conoscere le capitali di tutto il mondo e suonare persino il pianoforte”. Siamo dunque all’aspetto psicanalitico della pellicola: forse un contributo, per lo più, della Pavignano8. Infatti, si può chiudere sul tema del sogno. Gaetano parla dei sogni che fa e talvolta confessa i suoi disagi proprio come ad una seduta psicanalitica 9. Questi momenti valsero a Troisi l’appellativo di “Woody Allen italiano”10.

 

La città in convalescenza

Veniamo al secondo punto di vista, quello storico.

Gaetano si lascia alle spalle una tragedia non menzionata esplicitamente, ma che si comprende pesare sulla collettività: l’arte d’arrangiarsi è anche un tentativo, concreto, di tornare a vivere. Il canovaccio è stato probabilmente ispirato anche da questo difficile momento: ma proprio quando non si fa altro che parlare della sua città natale, nel bene e nel male, Troisi sceglie d’andare a Firenze. Evita le cartoline soleggiate del golfo dominato dal gigante annuvolato del Vesuvio, evita di fare un film su Napoli, a Napoli. Sono, venendo al dunque, i postumi del Terremoto dell’Irpinia: 23 novembre 1980.

Innanzitutto, è la sceneggiatura a comporne la suggestione, la vaga presenza.

Si pensi, ad esempio, al problema ricorrente che i personaggi hanno col trovare un alloggio. Gaetano, possibile terremotato, cerca a Firenze una stabilità che tuttavia gli è continuamente negata, trovando forse un destino non dissimile a 400 km da casa. Prima lo ospita sua zia, poi il mormone Frankie, infine la fidanzata Marta: in tutti e tre i casi son grossi guai. Per altro, cambia tre case dopo che ha fatto a meno di traslocare nella nuova, a Napoli, con un padre mutilato (ma non se ne conoscono le ragioni) che chiede il miracolo di una ricrescita per poter “aiutare a spostare i mobili, essere d’aiuto”. Non bastasse, nel viaggio d’andata si ritrova persino in automobile con un uomo depresso intenzionato a suicidarsi (Michele Mirabella) e all’arrivo con uno schizofrenico (Marco Messeri).

Lo raggiunge poi Lello su a Firenze, che subisce un ancor più emblematica ingiustizia: certo di essere ospitato da Gaetano, scopre che costui ha purtroppo cambiato casa. Deve allora trovarsi un albergo pur “non volendo pagare nemmeno una lira”. Il siparietto dei due in bicicletta si chiude però in dramma: Lello, durante le ricerche, cade e viene ricoverato in ospedale, incapace di farsi “leggiero leggiero” così come aveva affermato. L’amico va a trovarlo ormai a notte fonda, non dopo l’incontro con un inquietante medico “tedesco”. Qui la battuta di Gaetano, per quanto possa sembrare cinica, è alquanto realistica: “Se non altro per stanotte hai trovato dove dormire…”. Quanti feriti, sopravvissuti, quella notte del 23 novembre, trovarono alloggio in un ospedale sapendo di non avere nessuna casa dove tornare?

Veniamo ora alla pura visione, la cui testimonianza è “solo” quella di uno sguardo fugace: quello della macchina da presa, come ha ben evidenziato il recente film-saggio di Mario Martone: Laggiù qualcuno mi ama, 2023. E forse non poteva essere altrimenti per un film girato nei mesi successivi (uscì nel marzo ’81) e che lo stesso regista definì “primo film antisisma”11.

Lo sguardo suddetto è certo importante nel suo aprire letteralmente il film: analizziamolo con più attenzione, descrivendolo passo dopo passo.

Vediamo prima di tutto il contesto. Una comune serata, foriera d’una nottataccia, su cui Gaetano discetta con gli amici attraverso un lungo soliloquio: quello sulla guerra in sogno, già espressione dell’incapacità d’adattamento persino in contesti onirici o soprannaturali12. Gaetano asserisce di non riuscire mai ad ammazzare nessun nemico perché l’insonnia lo porta ad armarsi in modo poco adeguato, quando ormai le altre persone hanno già selezionato, ad orari più consoni, l’equipaggiamento migliore13.

Siamo dunque ai titoli di testa.

La musica di Pino Daniele offre un motivo lounge malinconico, cadenzato da un ritmo di carillon che si consuma in una sinfonia trascinata. Napoli è notturna, indecifrabile. Solitaria, si erge in fuori campo soltanto la voce di Raffaele/Lello (Lello Arena), verso una vetrata illuminata14. Finiti i titoli di testa, vediamo un’essenziale panoramica verso il basso che rivela la prima vera profondità del film: visiva, concettuale, architettonica, pur rimanendo composta. L’edificio è il buio da cui emerge Gaetano e dove troviamo una dominante ocra non presente altrove in scena: il fondo di un teatro, culla del Troisi attore? Del resto, egli iniziò con il gruppo La Smorfia e su una smorfia vera e propria si chiude anche il film, in fermo immagine. Ma soprattutto, la struttura è puntellata da spesse centine: una tensione implicita ed anche il più diretto dei riferimenti, davvero documentale, al terremoto che ha da poco sinistrato l’edificio.

Questo movimento di camera è stato sottolineato proprio da Martone: il suo film su Troisi inizia sulle note di Je so’ pazzo di Pino Daniele (pubblicata nel 1979) che accompagnano un denso montaggio di immagini di repertorio dell’epoca, notiziari, programmi televisivi, riprese video amatoriali: scene di vita comune, gli Anni di Piombo, il teatro di strada, gli scontri in piazza e i comizi, le lotte femministe, le catacombe di Napoli, il sangue di San Gennaro, Luís Vinício e il calcio. E la devastazione del terremoto. Qui ci si sofferma sulla visione, dal basso verso l’alto, di un’impalcatura in acciaio allestita per la ricostruzione, o forse per sostegno. Su questo stralcio di filmato di repertorio sentiamo già la voce, lontana, di Lello Arena: “Gaetano! Gaetano!”. La camera dunque inizia ad andare verso il basso e, nello stacco, continua nella panoramica scelta da Troisi per aprire il suo esordio. Il legame che Martone crea è dunque strettissimo, anch’esso di pura visione15.

Raffaele lo evoca dal culmine d’una strada buia, senza fondo: l’eroe della pellicola come per magia “appare”. L’intuizione sulla posizione di camera premia per altro la composizione, geometrizzata dai pali e con un carico visivo notevole. Persino il giornalista del telegiornale s’oppone, nel racconto surreale di Gaetano, allo scocciatore che sbraita dal cortile perché “così non si può lavorare”. Con un arguto senso dell’astrazione e dell’umorismo, Troisi fa un’autocitazione velata: la stessa televisione comunica all’attore che ha reso famoso d’andare giù perchè gli amici lo invitano al cinema. Ed è una questione fisica, “geografica” anche questa, oltre che mentale.

Segue poi un piano sequenza che accompagna i due allontanarsi dalla posizione iniziale verso una seconda scena, un “secondo atto” della serata. Troisi non teme nulla: la malinconia, l’autocitazione e le gag nevrotiche, anzi, accompagna il tutto alla devastazione, ai cocci ripresi sullo sfondo quando la camera continua a seguirlo: la sua Napoli è una città in convalescenza. Infatti, il suddetto incubo carnevalesco della guerra apre la fiera delle digressioni psicologiche e si concerta con la volontà di partire e “ricominciare da tre”.

Solo “tre cose gli sono riuscite” nella vita e non vanno perdute. Questo dice Gaetano. Ma sul piano meno astratto possibile il senso è duplice: qualcosa in piedi è per fortuna rimasto, ma è ora di ricominciare. Non di meno, ciò influenza la mancanza stessa di passioni e riferimenti: Gaetano non accetta l’invito per il cinema, mostrando dunque l’insicurezza cronica dell’uomo e artista16.

Dunque, Gaetano parte, ma Napoli riesce a farsi attendere. Ora che abbiamo visto l’andata, vediamo più da vicino anche l’emblematico momento del coraggioso ritorno sul finire della pellicola.

 

Itaca ritrovata

All’improvviso veniamo a sapere che la sorella di Gaetano sta per sposarsi e lui deve tornare per “dovere” di famiglia, ma la partenza non è delle più felici: ha appena litigato con Marta, che gli ha confessato un tradimento, e la questione è destinata a rimanere irrisolta. O risolta con uno strappo, laddove non dovesse più fare ritorno a Firenze. La sua Napoli lo aiuterà dunque a raggiungere una rinnovata consapevolezza? Ecco dunque, a pochi minuti dalla fine, un panorama, sole e mare, elementi nell’immaginario comune. Abbiamo già visto le solide basi di Troisi in una tradizione a metà strada tra biografia, credenza popolare e Teatro dell’Arte, soprattutto nella sua accezione più moderna: basti pensare alla battuta di Ugo, strategicamente posizionata in questo momento del ritrovo. Egli è convinto che il miracolo (la ricrescita della mano amputata) sia arrivato troppo tardi a casa sua, quando ormai aveva già traslocato altrove: un riferimento palese a Non ti pago di Eduardo De Filippo17. Siamo alla più diretta espressione del folklore locale, che la festa per un matrimonio può ben visualizzare (si ricordi la celebre scena iniziale de Il Padrino [The Godfather, 1972]).

Eppure, la regia adotta una forma curiosa che vale la pena di analizzare, per arrivare alle conclusioni.

Il pranzo di rito del matrimonio è ripreso in modo molto preciso ad individuare piccoli gruppi di persone, dinamiche umane che si stagliano mute, accompagnate solo da voci indistinguibili e in presa diretta, da applausi e risate lontane. Colpiscono gli anonimi commensali che fumano insieme, alzano i calici e raccolgono dai vassoi, si rassettano gli abiti e si rivolgono fuori campo su un tappeto sonoro di musica popolare. Lo scherzo degli amici alla sposa e l’imbarazzo generale, quasi che ciascuno sapesse di essere ripreso da un fotografo addetto a tale scopo e tentasse di dissuadere l’ortodossia del momento. La fotografia ha infatti un tono diverso: è madida di luce naturale, simula un certo amatorialismo in Super 8 che ruba momenti di convivialità. Non vi è una precisa volontà di esaltare il momento, renderlo leggibile, chiaro, di impatto: siamo nel folklore, ma qualcosa “stona”: la solitudine e l’alienazione di Gaetano. Eccolo dunque sul fondo della scena anche nei totali, separato da tutti, sbadiglia, tenta di darsi una motivazione, finisce quasi per guardare in camera evitando lo sguardo voyeuristico dell’obiettivo.

Questa tensione intima del protagonista, immerso nella sua Napoli, diverrà ripensamento e persino iniziativa – lui continuamente rimproverato di eccessiva passività dalla fidanzata – nel momento in cui viene intonata una canzone popolare partenopea: “Reginella”. Gaetano, separato dalla folla, separato da questa insistenza indagatrice del cinema, lo sguardo oltre un vetro e fuori campo, capisce che è il momento di tornare da Marta. Capisce che l’ama.

Alla luce di questa sequenza dal sapore realista e dalla concezione leonardesca, il panorama di Napoli su cui Troisi ha dipinto il dialogo con il prete appare una formalità, un atto dovuto, ma indispensabile per ritrovare la propria strada. Gaetano, tornando a Napoli, realizza che il suo posto è a Firenze dove lo attende un’ulteriore complessità a cui farà fronte in un tenerissimo dialogo finale: che nome dare al pargoletto? Qual è la parola finale, quella che conta?

Siamo alla fase finale della nostra riflessione tra passato e presente: è la parola che unisce, ma unendo crea nuove domande e nuove sfide. La zia di Gaetano, in compagnia del predicatore Frankie, sostiene che la “parola, nel senso di dialogo” ha bisogno di germogliare nei giovani. Ed è quello che finalmente, nel finale, prova a fare Gaetano.

Marta confessa a Gaetano, dopo avergli già anticipato di averlo tradito, di aspettare un bambino. L’identità del padre è però è incerta. Lui si arrabbia, lei risponde con uno schiaffo, il ragazzo perde sangue dal naso quando dello stesso colore è inondato l’ambiente, come mai prima di questo momento: una scelta stilistica fortemente emozionale.

Tutto pare si riequilibri nell’ultima sequenza, appena successiva a quest’ultima, dove l’illuminazione torna realistica (benché non sembra sia passato molto tempo). Da un punto di vista descrittivo i colori sono credibili. Ma sarebbe più corretto dire, dopo le “mostruosità” affrontate, umani.

La battuta finale sulla scelta del nome da dare al bambino insinua il dubbio che chiude ciclicamente la perenne indecisione del protagonista: un’invenzione di sceneggiatura che abbraccia più significati.

Marta propende per “Massimiliano” e Gaetano per “Ugo”. “Come tuo padre?”, chiede la ragazza, felice e un po’ sorpresa, finalmente, della reazione decisa dell’impacciato compagno nel rigettare una proposta, nel prendere posizione. Eppure, siamo in vicolo cieco.

La divertente argomentazione sull’eccessiva lunghezza del nome che produrrebbe un figlio dissoluto potrebbe indicare, da un lato, un attaccamento al proverbiale tradizionalismo partenopeo ovvero un’isola sicura dove l’identità è garantita, ma dall’altro l’interesse nel far crescere un bambino in modo “educato”, ovvero senza problematiche psicologiche che limiterebbero le proprie possibilità sociali. Problematiche che, secondo quanto racconta lo stesso Gaetano, deriverebbero anche dall’attaccamento a questioni proprio di tradizionalismo.

Il film finisce con un fermo immagine sulla “smorfia” di Gaetano18, letteralmente appeso e concluso, quasi a sorpresa, dalla colonna sonora e i titoli di coda. Si rimane senza risposta. Il figlio è davvero suo? Inoltre, Gaetano è cambiato? Sul lato caratteriale è certo più coraggioso e moderno, vista anche la scelta di voler crescere il bambino, ma la sua argomentazione è genuina o vuole solo nascondere il suo legame, ineluttabile, a tradizioni secolari? Ha ancora timore della reazione paterna così come l’aveva sua zia, anche lei fuggita?

Troisi dimostra di non rinunciare o aderire a una o l’altra dimensione, chiede soltanto la complicità dello spettatore nel comprendere il lato più umano del personaggio che è invece davvero la somma delle sue esperienze, tra cui il contesto familiare in cui è nato, la terra d’appartenenza e persino i suoi problemi esistenziali, da cui impara. Napoli è un contesto specifico, ovvio, ma come tutti e tanti altri e non vale meno o più di un padre prepotente o un’ispirazione estatica.

Troisi non si concentra sull’essere napoletano, né nuovo e né vecchio, ma nel mettere tale identità in relazione con tutto il resto: passato, presente e futuro.

Può sembrare una contraddizione, se essere napoletano è nell’immaginario comune una specialità che offre un punto di vista fortemente umano, aperto, tutto da scoprire. Essere napoletano è forse un modo più semplice di psicanalizzarsi, di fare autoanalisi, ma può rischiare di imprigionare. Come quando, in favore di uno stereotipo, si finisce per etichettare l’uomo. A Troisi interessa invece liberarlo dai pregiudizi e celebrarlo, dialogando con quanto e per quanto c’è di difficile nella propria esistenza.

Napoli è dunque sempre presente, pur non visualizzata, attraverso un fine esercizio di astrazione psicologica imprescindibile che passa per le incertezze, i dubbi, l’amore tormentato. È dunque questo il “napoletano nuovo” di Troisi, il suo personale metodo per proseguire la tradizione: aprirsi alla possibilità di una nuova esperienza. Esperienza: forse è questa la parola che conta.

 

1 Massimo Troisi, “Filmografia malincomica” di Simone Emiliani, FilmTV n° 26 del 25/6/2019, p. 8.

2 Ricominciare da lui, Lost Highway su Massimo Troisi di Gianni Canova, FilmTV n° 26 del 25/6/2019, p. 8.

3 la breve intervista è a 3:20.

 

4 La coppia era rodata da tempo grazie ai successi del gruppo cabaret La Smorfia sul finire degli anni ‘70, insieme a Enzo De Caro. Il loro teatro proponeva una scrittura radicata nel sociale e di smitizzazione di canoni culturali partenopei: si pensi al meta teatro e beffa de La sceneggiata oppure all’incontro tutt’altro che solidale tra i fedeli in San Gennaro.

5 Da ricordare il siparietto comico durante il pranzo all’aperto. Il nevrotico Raffele/Arena incalza Gaetano/Troisi perché gli conceda un posto gratuito dove dormire, in più insiste a privarlo della forchetta e rubargli il cibo perché lo ascolti con l’attenzione che merita finché quest’ultimo si spazientisce e lo manda via.

6 I due ottennero una nomination per la Miglior Sceneggiatura ai David di Donatello 1980. Troisi ricevette invece il premio al Miglior film e Miglior attore protagonista.

7 Vi è forse un omaggio a questa idea di scrittura in La vita è bella di Roberto Benigni, in cui il protagonista sfrutta la “forza del pensiero” per muovere per scherzo un comodino, manovrato dal figlio bambino, e che alla fine sortisce il suo effetto per risolvere un momento di forte tensione.

8 La psicanalisi avrà la sua massima espressione in scrittura al quarto film del regista (che valse alla coppia anche un Nastro D’Argento alla Migliore Sceneggiatura). Lo stesso Troisi confermerà l’interesse della collega, oltre che compagna all’epoca, per la psicanalisi in una intervista in occasione dell’uscita di “Le vie del signore sono finite”:

9 Nel suo docu-film “Laggiù qualcuno mi ama” [id., 2023] Mario Martone ha fatto riemergere dall’archivio di Anna Pavignano una inedita “prova” di seduta psicanalitica fatta proprio dalla donna a Massimo Troisi e registrata su audiocassetta.

10 Intervista di Sandro Paternostro in occasione del Festival del Cinema di Londra: https://youtu.be/SWkBN2zyp-g.

11 Citato in “Cinquant’anni dietro la macchina da presa” di Sergio D’Offizzi (direttore della fotografia di Ricomincio da tre), Effepi Libri, pag. 97.

12 Viene inevitabilmente in mente la battuta di Eduardo/Lucariello in Natale in Casa Cupiello che, rivolgendosi al fratello, sostiene esasperato quanto il figlio Tomassino lo contraddica “pure con le cose impossibili” (fosse stato donna gli avrebbe fatto sposare Nicolino).

13 Ciò indicherebbe anche la povertà di ammortizzatori sociali con cui i terremotati dovettero fare i conti. Il dibattito si era incendiato sin dai primi giorni, anche grazie al pesante atto d’accusa del Presidente della Repubblica Sandro Pertini per il ritardo nei soccorsi.

14 La scena venne girata presso Villa Vannucchi in San Giorgio a Cremano (NA), città natale dell’attore.

15 Un secondo riferimento, più prettamente cinematografico, che propone Martone è quello alle genuine vicissitudini sentimentali dei protagonisti della Nouvelle Vague: il legame è tra la corsa rocambolesca che si vede in Jules e Jim di Truffaut e quella di Troisi intorno al palazzo per incontrare, di fronte e “per caso”, la ragazza a cui è interessato.

16 Troisi mostrava sempre una spiccata umiltà parlando del suo lavoro. Solo per il quarto film ammise di aver tentato una regia più pensata perché: “prima lanciavo la camera in aria e dove cadeva lì facevo l’inquadratura”. Da una intervista del 1987 di Mario Canale per l’Istituto Luce Cinecittà: https://youtu.be/cQzjZ0LwliA.

17 Motivo della contesa tra i due antagonisti della commedia di Eduardo, composta nel 1940, è una vincita al Lotto. Uno ammette di aver sognato il padre defunto con i numeri vincenti, ma il figlio di questi oppone resistenza perché, secondo la sua ricostruzione, ci sarebbe stato un “errore di persona” dal momento che il vincitore aveva traslocato da poco nel suo vecchio appartamento.

18 Troisi divenne noto al pubblico televisivo con il trio cabarettistico “La Smorfia”, insieme ad Enzo De Caro e Lello Arena.

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Roberto Lasagna

Saggista e critico cinematografico, ha scritto numerosi libri, tra cui "Martin Scorsese" (Gremese, 1998), "America perduta. I film di Michael Cimino" (Falsopiano, 1998), "Lars Von Trier" (Gremese, 2003), "Walt Disney. Una storia del cinema" (Falsopiano, 2011), "Il mondo di Kubrick. Cinema, estetica, filosofia" (Mimesis, 2015), "2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick" (Gremese, 2018), "Anestesia di solitudini. Il Cinema di Yorgos Lanthimos" (Mimesis, 2019), "Nanni Moretti. Il cinema come cura" (Mimesis, 2021), "David Cronenberg. Estetica delle mutazioni" (con R. Salvagnini, M. Benvegnù, B. Pallavidino, Weirdbook, 2022), "Steven Spielberg. Tutto il grande cinema" (Weirdbook, 2022), "Ken Loach. Il cinema come lotta e testimonianza" (Falsopiano, 2024).

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