C’è un silenzio che pesa più di ogni parola, un silenzio che abita le pagine di La strada come una presenza costante, è il silenzio della fine del mondo ma anche dell’anima umana che continua a camminare quando tutto sembra perduto. Cormac McCarthy, con la sua prosa spoglia e ferita, costruisce un romanzo che non descrive solo un paesaggio devastato ma la condizione stessa dell’esistere dopo il disastro.

Il mondo è crollato, non ci sono nomi né luoghi riconoscibili, solo una strada che attraversa un’America ridotta in cenere. Padre e figlio, mai chiamati per nome, avanzano spingendo un carrello, cercando il Sud come si cerca una speranza. Ogni passo è un atto di fede. Ogni notte una piccola preghiera: “Siamo i buoni? Si e porteremo il fuoco”.
McCarthy non offre spiegazioni. Non c’è un cataclisma nominato, nessuna cronaca di come sia arrivata questa distruzione, ciò che resta è l’essenziale: un padre che tenta di insegnare al figlio come restare umano, anche quando non c’è più nulla che lo ricordi. L’autore, fedele al suo stile asciutto e implacabile, riduce la lingua a un respiro, un battito, un’eco lontana di ciò che era la civiltà. La strada è un romanzo che si legge quasi in apnea, ogni parola è una pietra sul sentiero della sopravvivenza e ogni silenzio un abisso in cui si riflette la paura di perdere tutto, anche la compassione.
Eppure dentro questo paesaggio di cenere, McCarthy colloca il gesto più puro che l’uomo possa compiere, ovvero amare. Il padre protegge il figlio con un’ostinazione che trascende la ragione. In quella tenerezza disperata c’è il cuore del romanzo. Il mondo è morto, ma la loro relazione lo tiene ancora in vita. L’amore come ultimo linguaggio quando tutte le altre lingue sono state cancellate è una parabola antica e universale.
L’ambientazione post apocalittica non è mai puro scenario, ma uno specchio dell’anima e della fragilità dell’uomo moderno. L’autore ci disegna un mondo dove non esiste più alcun ordine morale: bande di cannibali, città in rovina, silenzi che divorano la speranza, ma proprio in questa desolazione la strada diventa simbolo del cammino come unico modo per restare vivi. Non è solo la via fisica che conduce verso il Sud ma il tragitto interiore che separa la bestialità dalla bontà, la disperazione dal sacro.
Ogni pagina è un dialogo tra due estremi: brutalità e grazia. Il padre, figura quasi simbolica, porta dentro di sé il peso dell’intero genere umano, eppure trova la forza di raccontare al figlio che ci sono ancora i buoni da qualche parte. Il bambino con la sua innocenza diventa il testimone di un’umanità che resiste oltre la catastrofe, è lui, non il padre, ad incarnare la vera speranza: la possibilità che il bene non si estingua mai del tutto.
La scrittura frammentata riflette volutamente l’assenza di speranza, l’autore ha eliminato quasi tutta la punteggiatura per dare l’impressione di un mondo rotto e disgregato. La prosa di McCarthy è scarna, scolpita nella pietra. Niente fronzoli e nessuna retorica. Le frasi sono brevi e troncate come se fossero state bruciate anch’esse prima dell’apocalisse. Eppure, proprio in questa nudità si nasconde una poesia devastante. La strada è una meditazione sul dolore e sulla grazia, un viaggio tra le macerie del mondo e dell’anima dove ogni passo è una scelta morale. Leggerlo significa attraversare un deserto e arrivare dall’altra parte cambiati. Non ci si rialza da La strada senza portarne addosso la polvere, è un libro che lascia segni come cicatrici invisibili e che costringe il lettore a interrogarsi su cosa resti di noi quando tutto è finito. Forse, dice McCarthy, resta solo l’amore ed è abbastanza.







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