In un momento estremamente delicato come quello che stiamo vivendo, alle prese con un virus il cui sempre più diffuso contagio e le misure precauzionali adottate per contenerlo rischiano di stravolgere le nostre vite e paralizzare interi settori dell’economia, non si può fare a meno di riflettere sul ruolo che il cinema, con desolanti e spettacolari visioni apocalittiche, ha avuto nel dare forma ad ansie e paure di una società moderna evoluta ma anche fragilissima.

L’Ultimo Uomo della Terra
Pur trattandosi di una rappresentazione deformante, esasperata della realtà e dei destini dell’uomo, propria di un genere a metà tra la fantascienza e l’orrore, è sorprendente però notare come certi pessimistici scenari di devastazione e delirio collettivo prefigurati dal grande schermo trovino, nel 2020, parziale riscontro nell’emergenza epidemica del corona virus, la cui veloce diffusione e la cui percentuale di mortalità (relativamente bassa, ma non per questo da sottovalutare) destano serie preoccupazioni. Quarantene, meccanismi di autodifesa che mettono a nudo la sconcertante debolezza dell’essere umano, sgradevoli episodi di sciacallaggio, la delirante corsa a svuotare gli scaffali dei supermercati, l’inconsueta geografia urbana di zone rosse e intere provincie blindate, città semi deserte, scuole e altri luoghi di aggregazione chiusi, eventi annullati o ai quali è preclusa la partecipazione del pubblico. Sembrerebbe un film, ma purtroppo non lo è.

L’Ultimo Uomo della Terra
Il quartiere romano dell’EUR, progettato negli anni Trenta dal regime e poi ampliato e ultimato alla fine degli anni Cinquanta, nel 1963 divenne il set per le agghiaccianti visioni apocalittiche di un film che all’epoca non fu capito: L’ultimo uomo della Terra (The Last Man On Earth, 1964), coproduzione italo-statunitense firmata da Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, tratta dal romanzo di Richard Matheson I Am Legend. Il film ebbe una genesi travagliata. Fu lo stesso scrittore a lavorare alla sceneggiatura, destinata inizialmente alla casa di produzione inglese Hammer che ne acquistò i diritti. Bocciato dalla censura nel 1957, il progetto venne abbandonato e la Hammer volle cedere lo script al produttore americano Robert L. Lippert, il quale però vi fece apportare alcune modifiche. Si giunse, infine, alla decisione di realizzare il film in Italia e, secondo gli accordi di coproduzione, la regia fu affidata a Salkow mentre sembra che il nome di Ragona dovesse figurare solo per permettere l’utilizzo dei teatri di posa della Titanus, dove furono girati gli interni.

L’Ultimo Uomo della Terra
Gli esterni vennero filmati in parte a Ostia Lido, al cimitero Flaminio, nella chiesa di San Pio X nel quartiere Balduina, ma soprattutto tra le moderne geometrie del quartiere EUR, che contribuiscono indubbiamente a creare un senso di solitudine e alienazione. Vediamo il Palazzo della Civiltà, con la scalinata ricoperta di cadaveri, la ruota panoramica del Luneur, il celebre Fungo (nato come serbatoio idrico), il Pala Lottomatica: un quartiere moderno sorto a partire dagli anni Trenta per volontà del fascismo e qui “trasfigurato dalle livide luci usate dalla fotografia di Franco Delli Colli in chiave decisamente espressionista, apocalittica e desolata” (Mauro F. Giorgio).

L’Ultimo Uomo della Terra
Il protagonista del film è il grande Vincent Price, che interpreta il dottor Robert Morgan, l’unico ad essersi sottratto a una terribile epidemia che ha sterminato l’umanità trasformando gli individui in vampiri. Di notte Morgan si rinchiude nella propria casa per sfuggire al rischio di un contagio e di giorno si aggira per la città, armato di paletti di legno, alla ricerca di creature vampiresche da trafiggere. L’attore disse in un’intervista: “Il problema nel fare L’ultimo uomo della Terra fu che si supponeva che fosse ambientato a Los Angeles, e se c’è una città al mondo che non assomiglia a Los Angeles, è proprio Roma”. Ma riguardando il film possiamo dire che la scelta dell’EUR fu senz’altro azzeccata. Il razionalismo del quartiere romano dell’EUR, che qui appare deserto e spettrale, diventa paradossalmente l’irreale scenario di una catastrofe planetaria. Tratto dallo stesso racconto di Matheson è il film 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, 1971, di Boris Sagal), con Charlton Heston.

Occhi Bianchi sul Pianeta Terra
Nel capolavoro di Goerge A. Romero La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, 1973) il virus è un’arma batteriologica del Pentagono chiamata “Trixie”, che si diffonde accidentalmente nella cittadina di Evans City contaminandone l’acquedotto, con il tragico effetto di far impazzire gli abitanti al punto da spingerli a commettere efferati omicidi. Il film ha avuto un remake nel 2010, per la regia di Breck Eisner.
Virus, coproduzione italo-spagnola diretta nel 1980 da Bruno Mattei e Claudio Fragasso, associa il contagio alla sperimentazione scientifica e gli strani vapori sprigionati per errore finiscono con il trasformare le persone in famelici zombie.
In Virus letale (Outbreak, 1995, di Wolfgang Petersen), invece, Dustin Hoffman, medico colonnello dell’esercito, è alle prese con una micidiale arma batteriologica che dall’Africa giunge negli Stati Uniti.

La Città Verrà Distrutta all’Alba (1973)
La lista dei film è lunga e va da Andromeda (The Andromeda Strain, 1971, di Robert Wise) a L’esercito delle dodici scimmie (Twelve Monkeys, 1995, di Terry Gilliam), da Mission Impossible 2 (id., 2000, di John Woo) a Infection (Kansen, 2004, di Masayuki Ochiai). Tutti raccontano, in un modo o nell’altro, il pericolo del contagio. Certo si tratta di fiction, di fantastiche storie di mutazioni genetiche, pandemie, lotta per la sopravvivenza. Ma oggi, con gli episodi di panico collettivo che stiamo vivendo e le fantomatiche voci su una natura dolosa del corona virus concepito forse per annientare l’economia cinese, quelle storie non sembrano poi così assurde. Se nel film L’ultimo uomo della Terra Vincent Price si aggirava per le strade di una Roma disabitata e inquietante, in questi giorni i notiziari ci mostrano le immagini di una piazza del Duomo a Milano quasi vuota e di una Venezia che, sempre invasa da masse di turisti, si è incredibilmente spopolata. Non è altrettanto inquietante?

Infection (2004)
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