PREMIO ADELIO FERRERO 2024 – PRIMO CLASSIFICATO SEZIONE SAGGI
«In verità, è la vita stessa!» Godard e la letteratura come prefigurazione
di Gabriele Corna
«Godard dà al cinema le potenze che sono proprie del romanzo» (1). Scrive così Gilles Deleuze a proposito di Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, 1965), sottolineando il forte carattere romanzesco dell’opera del cineasta della Nouvelle vague. Tale riflessione apre alla discussione intorno al rapporto che la settima arte intrattiene con la narrazione romanzesca, e più in generale con la letteratura. E proprio quest’ultima trova in Jean-Luc Godard un interlocutore privilegiato. Sperimentatore e rivoluzionario, attento ai linguaggi, nella sua lunga carriera Godard è stato in grado di stravolgere regole e meccanismi della narrazione cinematografica, lasciando un segno indelebile nella storia.
In un saggio su un linguaggio che di lì a pochi anni avrebbe decostruito (2), il ventunenne Godard non esita ad accostare i romanzieri francesi del diciottesimo secolo ai maestri del cinema del suo tempo: Stendhal e Lubitsch, Flaubert e Jean Renoir. La volontà di legittimazione è chiara; dopo aver sofferto per i primi sessant’anni di vita di un complesso di inferiorità rispetto al primato della letteratura, il cinema rivendica uno statuto di equità rispetto all’arte della parola scritta. Si delinea in questo modo un dialogo tra tempi, spazi e media differenti, tra pagina e schermo; dialogo destinato a proseguire negli anni successivi, quando Godard passerà dalla macchina da scrivere alla macchina da presa.
Con l’avvento della Nouvelle vague, infatti, il cinema assume il carattere di vera e propria scrittura (3). In questo processo di rinnovamento, tanto tematico quanto linguistico, il ricorso spasmodico alla letteratura è una cifra significativa. In particolare l’impiego della citazione, letteraria, ma non solo, è uno degli stilemi di quello che la critica tende ormai a definire il primo periodo dell’attività registica di Jean-Luc Godard (4). Infatti, nei quindici lungometraggi girati tra il 1960 e il 1967, da Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) a La cinese (La chinoise, 1967), ultimo film girato prima del Sessantotto, emerge nel regista un particolare gusto per il riuso.
Tuttavia, la citazione in Godard non risulta mero sfoggio di erudizione o sollecitazione verso un pubblico colto, come quello del cinema d’essai, ma assume un significato nella trama, diviene funzione essenziale allo svolgimento dell’intreccio. Rispetto ad alcune tipologie molto ampie, come quella proposta da Giorgio Tinazzi (5), nel particolare di questo periodo del lavoro di Godard, è possibile ridurre la presenza della letteratura a tre grandi macro funzioni: l’omaggio, la critica e la prefigurazione. E su quest’ultima si intende soffermarsi come esempio maggiormente caratterizzante della poetica del regista.
Già diffuso nel cinema classico, il sistema, o gioco, delle anticipazioni consente al regista/sceneggiatore di lasciare, qua e là durante il film, alcuni indizi su come l’intreccio si scioglierà. La serie di piccole suggestioni può avere la natura più disparata, proprio in rispetto della capacità del cinema di unire codici espressivi differenti. Si pensi, ad esempio, alla Danse macabre di Camille Saint-Saëns suonata durante la sequenza della festa mascherata in La regola del gioco (La régle du jeu, 1939) di Jean Renoir. La commistione tra mondo dei vivi e oltretomba prelude, inevitabilmente, al finale del film che vede la morte dell’aviatore Jurieu e la ricomposizione del sistema originario (6). Oltre alla musica, anche le arti figurative e scultoree possono intervenire in maniera analoga. È il caso della Pietà bergmaniana di Sussurri e grida (Viskningar och rop, 1972) che allude all’imminente trapasso di Agnese, accostata alla Passione del Cristo; ma anche di L’incubo di Füssli, scelto da Éric Rohmer per svelare l’evento intorno al quale ruota tutto La Marchesa von… (La Marquise d’O, 1976) (7).
Tuttavia il suggerimento di una prefigurazione può anche rivelarsi fazioso o errato; tale operazione si allinea, anche per il cinema della modernità, all’istanza di distacco che deve intercorrere tra il testo filmico e il suo spettatore. In questo quadro, provocare effetti di straniamento e infrangere l’orizzonte d’attesa dello spettatore possono essere delle strategie efficaci (8). Sempre con lo stesso intento, impedire lo scivolamento totale dello spettatore della trama, l’anticipazione veritiera può risultare ancora utile. Si pensi alle immagini anticipatrici del finale che costellano Easy rider (Id., 1969) di Denis Hopper o ancora a Breve incontro (Brief encounter, 1946) di David Lean, il cui epilogo è mostrato sia all’inizio sia alla fine del film. Se dunque il finale è già rivelato, non resta allo spettatore che concentrarsi su tutto ciò che viene oltre alla trama, permettendo così una visione più attenta del film.
Nel campo di forze del testo filmico preso in esame interagiscono quindi stimoli differenti; musica, teatro, scultura, altro cinema e, ovviamente, letteratura infittiscono il discorso del film, arricchendone le piste di analisi e le capacità significative. Ne risulta un meticoloso lavoro di tessitura, a cui lo stesso Godard non si sottrae. Come si vedrà, il regista inserisce nei propri lungometraggi parecchi elementi prodromici, ai quali non era estraneo il cinema classico. Ma in piena armonia con la sua poetica, questi sono uniti a una ricerca di nuove soluzioni estetiche e stilistiche, tanto nel montaggio quanto nella colonna sonora.

Questa è la mia vita
Il ritratto di Nana: suono, musiche, didascalie.
Nel proporre uno studio sulla citazione letteraria di Godard, è imprescindibile toccare Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962). Anche Tinazzi vi individua un esempio rilevante, che propone nella tipologia della citazione all’interno del proprio saggio (9). Si tratta della cosiddetta lettura del Ritratto ovale di Edagr Allan Poe, nel dodicesimo e ultimo quadro, forse una delle sequenze più famose non solo del film, ma dell’intera cinematografia di Godard. Essa giunge infatti in un momento chiave del film, che si avvicina allo scioglimento. Nana ha ormai avviato la sua carriera di prostituta sotto l’egida del subdolo Raoul. Alcuni episodi la portano a riflettere sulla vita e la felicità, come un mancato ménage à trois (decimo tableau) e nuove conoscenze, tra le quali un giovane uomo del quale si innamora (nono tableau).
In particolare, nell’undicesimo quadro Nana si ritrova in un café in Place de Châtelet con “un uomo il cui mestiere è leggere”, in realtà il filosofo del linguaggio Brice Parain. Senza sapere chi sia, la ragazza intavola un discorso sul “parlare”. Questa è, tra l’altro, l’unica scena di conversazione del film girata secondo il modello classico del campo e controcampo. Tale scelta va probabilmente imputata alla volontà del regista di non distogliere lo spettatore dalle parole del filosofo, la cui riflessione verte appunto sul linguaggio, tema estremamente caro allo stesso Godard (10). Inoltre, già in questa scena al café, vi è un riferimento letterario di natura prefigurativa, che si farà più forte con la lettura del Ritratto ovale.
Il filosofo porta infatti all’attenzione di Nana le circostanze della morte di Porthos, protagonista della trilogia I tre moschettieri di Alexandre Dumas padre (11). Nel far saltare in aria una galleria con la polvere da sparo, il moschettiere si ferma a riflettere per la prima volta nella sua vita. L’indugio gli è fatale e rimane schiacciato sotto le macerie dell’esplosione. Perkins spiega così il senso dell’accostamento tra Porthos e Nana: «l’eroe di Dumas attira su di sé la morte, quando, per la prima volta, contempla il suo agire; l’eroina di Godard attira su di sé la morte quando per la prima volta esercita la sua volontà» (12).] Secondo questa suggestiva interpretazione, la tragica fine di Nana sarebbe già scritta dal primo quadro; il “peccato originale” starebbe nel rifiuto della donna di tornare a casa col marito Paul per inseguire il sogno di diventare attrice.
Da una sequenza di pura riflessione, sia a livello diegetico per Nana, sia sul piano metadiscorsivo, si passa ad un’altra in cui a imporsi è più l’azione, il tutto accompagnato da particolari procedimenti stilistici. Il cartello del dodicesimo quadro apre la sequenza, intitolata «Encore le jeune homme – Le portrait ovale – Raoul revende Nana». Possiamo dividere il tableau in due sequenze: una prima che vede insieme Nana e il giovane senza nome nella stanza da letto della donna, e una seconda, l’epilogo, con il tentativo di cessione di Nana a un altro protettore. Prendendo in considerazione la sequenza di Nana e il giovane in camera da letto, è possibile individuare tre momenti, grazie a tre segni di interpunzione forti, delle dissolvenze in nero. La prima e la terza sottosequenza sono più corte, meno di trenta secondi la prima e una quarantina di secondi la terza e mostrano i due amanti nelle loro effusioni e intenti a decidere cosa fare nel pomeriggio. La seconda sottosequenza, della durata invece di circa quattro minuti, è occupata per la quasi totalità dalla lettura del finale del Ritratto ovale di E. A. Poe.
Ciò che più attira l’attenzione nelle due brevi sottosequenze, iniziale e finale, è la colonna sonora. I dialoghi tra i due protagonisti sono annullati e ridotti a didascalie, mentre la musica, una composizione per archi di Michel Legrand, è presente, ma senza particolari intenti di drammatizzazione o accentuazione. Essa prosegue anche durante la prima parte della lettura, per poi interrompersi sul volto di Nana; così facendo non si crea un disturbo alle parole della lettura che occupa la parte centrale della sequenza (13). Infine, Nana annuncia la decisione di troncare con Raoul e col mondo della prostituzione. Questa spinta verso la liberazione dall’oppressione, dovuta all’amore dell’uomo e al momento dionisiaco, si scontra brutalmente con la realtà a cui è riportata nella sequenza finale.

Questa è la mia vita
Come si è detto, la morte di Nana è già ampiamente anticipata nel corso del film. Nella lettura del Ritratto ovale di Poe si ritrova il segnale più forte di tale prefigurazione, in contrasto con i progetti di felicità futura di Nana. Il giovane, steso sul letto e ripreso in primo piano, legge un’edizione di tutte le opere dello scrittore americano, tradotte da Charles Baudelaire. Se nelle due sottosequenze ai margini la particolarità sta nella sostituzione dei dialoghi con le didascalie, nel momento della lettura alla voce dell’attore che interpreta il giovane senza nome, Peter Kassowitz, subentra invece una voce over. Si tratta dello stesso Jean-Luc Godard, al momento della realizzazione compagno di vita di Anna Karina e quindi, in un certo senso, toccato direttamente dalle parole di Poe.
Al fine della costruzione di un meccanismo di prefigurazione occorre creare un collegamento diretto tra la ragazza del dipinto di cui scrive Poe e Nana. Questo raccordo ideale è dato dal montaggio; nel momento in cui la voce narrante legge «Dopo qualche istante, guardai di nuovo fissamente il dipinto» la musica si interrompe e l’inquadratura si sposta su un primo piano di profilo di Nana alla finestra. A questo punto è chiaro il parallelismo tra la ragazza del ritratto e la donna del film. Come già detto, l’interruzione della musica segnala la necessità di concentrazione sulle parole che verranno lette in seguito. Con uno stacco si passa al primo piano di Nana di fronte e poi a un altro di profilo. In quest’ultimo piano si nota, accostata alla figura di Nana, una fotografia di Liz Taylor in Venere in visone (BUtterfield 8, 1960), a ricordare le velleità artistiche della donna (14). Dopo queste parole, la lettura si interrompe momentaneamente per un breve scambio di battute tra i due, durante il quale il giovane asserisce che si tratti proprio della loro «storia… un pittore che fa il ritratto della sua donna». Dopo la richiesta di proseguire, l’uomo continua a leggere:
Lettura: […] E, per un momento, il pittore rimase in estasi davanti al lavoro che aveva compiuto, … ma un attimo dopo, mentre ancora contemplava, tremo e fu preso dallo spavento. E gridando con una voce squillante: «In verità, è la vita stessa!», si voltò bruscamente per guardare la sua amata… e lei era morta… (15).
Si delinea quindi una dialettica del sublime e del gotico, tra bellezza e vita/morte. Nana è musa ispiratrice dell’arte, come nei fatti è Anna Karina per il regista. L’interpretazione di questo passo muove dunque anche verso l’autobiografico (16). Insomma, tutta la sequenza prende le proprie mosse da un proficuo confronto inter artes, il cui risvolto è soprattutto la sperimentazione sul linguaggio cinematografico. Infatti, come nota Tomasi, la dialettica tra letteratura e cinema si espande siccome Godard mette in contatto «anche l’arte, dal momento che il brano di Poe è interamente dedicato a un quadro e alle emozioni di chi lo osserva […], con tanto di riferimenti al pittore americano Thomas Sully (1783-1872), noto in particolare per i suoi ritratti femminili» (17). Infine, si uniscono anche la musica, della cui presenza/assenza si è già discusso, e la fotografia, grazie all’immagine specchio di Elizabeth Taylor (18). Dall’analisi di questa sequenza emerge quindi il sincretismo del cinema; esso dimostra così di possedere un linguaggio capace di comprenderne altri al fine della costruzione del proprio discorso.
In questo specifico caso, l’obiettivo è la prefigurazione della morte di Nana che, con questa sequenza, pare ormai inevitabile. Tale previsione è tuttavia radicata in tutto il film. Oltre al già citato riferimento a Porthos nel tableau precedente, l’annuncio della morte della protagonista è già implicito nel terzo quadro. La sequenza al cinema termina con la condanna a morte di Giovanna d’Arco, tratta dal film di Dreyer. Se le immagini hanno stabilito un parallelismo tra le due, allora Nana parteciperà della stessa fine di Giovanna. Spia emblematica di ciò è proprio la didascalia finale che recita «La mort». Inoltre, Godard anticipa anche le stesse circostanze dell’uccisione della sfortunata. Nel sesto tableau, quindi alla metà esatta del film, la donna assiste a una sparatoria in strada. La rappresentazione di questa è straniante e inusuale, a cavallo tra campo e fuoricampo (19); del resto, lo straniamento risulta evidente anche dall’ultima scena del film. Nana muore in un piano sequenza, con continui movimenti di macchina e, soprattutto, senza neanche un primo piano. Infine, la scena si colora anche di parodia: Nana è colpita per sbaglio da Raoul, mentre il bandito si è dimenticato di caricare la pistola (20).

Questa è la mia vita
Michel, Patricia: tra romanticismo e Novecento.
Se per anticipare la fine tragica di Questa è la mia vita Godard si serve di un testo americano dell’Ottocento, diversa è la costruzione di tale meccanismo in Fino all’ultimo respiro, dove a far da padrona è la letteratura novecentesca. Alla sua uscita nel 1960, il film suscita clamore non tanto per la storia, ma piuttosto per il totale rovesciamento delle regole che governavano il linguaggio del cinema fino a quel momento conosciuto. È la dichiarazione di poetica di Godard e il manifesto della Nouvelle vague insieme a I quattrocento colpi (Les Quatre Cents Coups, 1959) e Hiroshima mon amour (id., 1959). Se Paolo Bertetto non esita a definirlo un «mito» (21) è anche perché il film si inserisce in un palinsesto già apprezzato dal pubblico, soprattutto giovanile, all’epoca: il cinema noir americano. Infatti, già dalla prima sequenza si crea un legame emulativo e affettivo tra Michel e l’attore archetipico del noir, Humphrey Bogart. Il dialogo intertestuale tra il personaggio interpretato da Belmondo e l’insieme dei personaggi bogartiani è attivato dalla mimica: Michel ne cita la gestualità, passando il pollice sulle labbra. Si definisce così «un primo fantasma e una prima mitologia del personaggio, che si costruisce anche in relazione al modello del duro o del gangster americano, magistralmente delineato da Bogart» (22). La figura dell’attore hollywoodiano ritorna anche attraverso foto e locandine esposte fuori da un cinema, che Michel osserva con bramosia.
Seppur nella sua specificità di personaggio del cinema moderno, Poiccard rimanda a Bogart anche nelle caratteristiche di eroe tormentato. Interessante in questo senso è la proposta di lettura, avanzata sempre da Bertetto, di una tendenza di taluni personaggi godardiani alla morte e alla distruzione. Egli rintraccia una vena di spirito romantico in Michel, ma anche in Nana e Pierrot-Ferdinand di Il bandito delle 11, insomma, in quelli che definisce gli eroi godardiani della trasgressione (23). Tale ipotesi pare fondata se si ripensa al paragone di Nana con Porthos e al “peccato originale” che la guida alla morte: l’aver cercato di agire di testa propria.
Se quindi il personaggio di Michel è destinato a una fine tragica, cui più o meno consapevolmente sceglie di andare incontro, dall’analisi del testo filmico emergono dei chiari elementi di prefigurazione. L’avvicinamento è graduale, in una sorta di climax ascendente di citazioni, solo in un caso di media lunghezza, al contrario degli altri, in cui la citazione è ridotta pressoché a una singola frase. Un primo indizio ci è data dal riferimento a William Faulkner. Esso è inserito durante il dialogo tra i protagonisti nella lunga sequenza all’Hotel de Suède, dove risiede Patricia. È proprio la ragazza a introdurre l’amante allo scrittore dell’avanguardia americana:
PATRICIA […] Hai letto Le palme selvagge?
[…]
PATRICIA Ascolta. L’ultima frase è molto bella: «Between grief and nothing, I will take grief». (Si gira verso di lui e traduce) Tra il dolore e il nulla, io scelgo il dolore… E tu, cosa sceglieresti?
[…]
MICHEL Il dolore è idiota. (Il profilo di Patricia passa avanti e indietro in campo). Io scelgo il nulla. Non è che sia meglio… ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente. E poi, adesso, lo so…(24).
Pubblicato nel 1939, Le palme selvagge (Wild palms) è un’opera difficilmente definibile. È l’accostamento di due racconti che procedono a capitoli alterni, senza mai incontrarsi. Ai fini di un’analisi comparata, è interessante il primo di questi due, che condivide con Fino all’ultimo respiro alcune analogie. È infatti la storia di una coppia di giovani in fuga. Quando Harry incontra Charlotte, donna sposata con due figli a carico, i due si danno alla macchia in un disperato viaggio nel profondo Sud degli Stati Uniti. Lei rimane incinta e decidono di ricorrere a un aborto clandestino. Charlotte muore per via dell’intervento e Harry, condannato ai lavori forzati, si suicida con una pastiglia di cianuro. Non sono forse due palme selvagge anche Michel e Patricia? Un’ipotesi è di leggere il romanzo di Faulkner come l’ideale proseguimento della fuga verso l’Italia che Michel propone alla ragazza, anche lei in dolce attesa.
Ma il motivo comune tra le due coppie è probabilmente la tendenza all’autodistruzione, alla morte quale preferenza al dolore, come afferma Michel nel dialogo appena citato. O, almeno, questo accomuna la fine di Michel con quella dei due americani. Il «E poi, adesso, lo so…» fa pensare che Michel stesso sia conscio di ciò che, prima o poi, gli accadrà e, al tempo stesso, ne sia volutamente artefice. Il discorso è analogo alla scelta di Nana e alla sua condanna. Mentre il bandito godardiano sancisce già da questo momento il proprio destino, Patricia vi si sottrae, con la delazione alla polizia. Sebbene ci si trovi in entrambi i casi davanti a perfetti esempi di eroi anticlassici, tanto nella letteratura quanto nel cinema, essi attirano l’affezione dei lettori/spettatori in maniera differente; con la sua denuncia Patricia sceglie di svincolarsi dal destino di Michel e di proseguire sulla propria strada. Al contrario, Charlotte e Harry vivono fino in fondo il proprio sentimento e condividono il medesimo destino di distruzione. Poco prima del riferimento a Faulkner, Patricia dice di voler essere come Romeo e Giulietta. Nonostante questa, parecchio ingenua, affermazione la giovane abbandona Michel nel finale. Sembrano invece proprio Harry e Charlotte i novelli amanti di Verona.
Infine, l’inserimento di Faulkner all’interno di questa sequenza non appare per nulla casuale a livello formale. Oltre che per la sua predilezione verso la sua terra d’origine (il Mississippi), lo scrittore è conosciuto per il suo stile elaborato. La prosa di Faulkner è curata nel dettaglio, con periodi lunghi e complessi. Godard estrae dall’imponente tessuto sintattico faulkneriano una frase assai breve quanto significativa. La capacità del regista nel costruire collage si rivela anche in questo caso; quasi a rispettare l’ambiente di provenienza della citazione, Godard la inserisce in una sequenza lunga e articolata, 22’ 52’’ per 64 piani, risultato di un montaggio studiato nei dettagli (25). Vi è dunque comunanza di stili tra il regista e lo scrittore.
In generale, l’aspetto stilistico più interessante della macro sequenza è forse il dialogo tra campo e fuoricampo: i personaggi sono talvolta mostrati parzialmente, creando soluzioni visive anomale e inquadrature non bilanciate, come nel dialogo sopra riportato (26). Patricia e Michel sono seduti sul letto, ai margini dell’inquadratura lei tiene un libro fra le mani, del quale non si vede neanche la copertina. I due sono uno accanto all’altra, ripresi in primissimo piano, Patricia sulla sinistra e Michel sulla destra. La ragazza è concentrata sul libro, lui di più sullo sfilarle il vestito. I continui movimenti dei personaggi impediscono loro di essere sempre completamente in campo. Ma quando Patricia lo incalza con la domanda «Cosa sceglieresti?» tra il dolore e il nulla, la macchina da presa si sposta su Michel, lasciandolo solo in primo piano, semisteso sul letto. Malgrado la posizione, l’indugio dell’inquadratura evidenzia l’importanza della dichiarazione. Il tono della ripresa si fa così più serio e meno giocoso rispetto alle confuse effusioni dei due amanti. Michel sceglie il nulla e lo fa chiaramente. Il suo destino è scritto.
Se la sequenza all’Hotel de Suède, insieme a una prima prefigurazione forte, è centrale nel film, più avanti il regista torna a insistere su questo punto. Nella seconda parte del film, a venti minuti circa dalla fine, si trova una breve sequenza al cinema. Anche in questo caso, come in molti film di Godard, la sequenza ambientata in una sala cinematografica rimanda all’universo cinefilo della Nouvelle vague. Michel è oramai braccato dalla polizia e, dopo una prima fuga dal cinema George V, l’uomo propone a Patricia di andare al Napoléon a vedere un film western. I due guardano insieme L’oro della California (Westbound, 1959) diretto da Budd Boetticher. Anche in questo caso la citazione, e la sperimentazione, passano dalla colonna sonora:
VOCE (fuori campo)
Méfie-toi, Jessica,
Au biseau des baisers
Les ans passent trop vite
Evite, évite, évite
Les souvenirs brisés (27).
[…]
DONNA (fuori campo) Lei si sbaglia, sceriffo… la nostra storia è nobile e tragica come la maschera di un tiranno.
[…]
DONNA (fuori campo) …Nessun dettaglio indifferente rende patetico il nostro amore (28).
La voce fuori campo è di Jean-Luc Godard, mentre i versi sono di Louis Aragon. Si tratta della prima quartina di Elsa, je t’aime. Suona quasi come un avviso a Patricia, per la sua futura delazione. Segue poi la voce di una donna, sempre fuori campo, con i primi due versi di Cors de chasse, tratta dalla raccolta Alcools di Guillaume Appollinaire. Il poeta aveva scritto il componimento per dimenticare una relazione amorosa burrascosa, dalla quale era uscito ferito. Nella fattispecie della coppia godardiana, sarà Patricia a ferire il suo amato, ma non solo in senso metaforico. Le sue azioni porteranno allo sparo e al colpo mortale sul corpo di Michel. Sul piano del filmico la breve sequenza, 15 secondi circa, si risolve su un’unica inquadratura dei due in primissimo piano, illuminati a tratti dallo schermo su cui è proiettato il film. L’inquadratura è seguita da un piano d’ambientazione, durante il quale i due escono dal cinema, informando lo spettatore, grazie all’insegna, del titolo del western appena proiettato.
Infine, l’ultima anticipazione arriva a una decina di minuti dalla fine. Mentre sono rifugiati nell’appartamento di una donna di fiducia, Patricia mette sul giradischi un concerto per clarinetto di Mozart mentre Michel prende tra le mani un libro. È Abracadabra di Maurice Sachs, e sulla copertina è aggiunta una frase di Lenin: «Nous sommes des morts en permission», siamo dei morti in licenza. Una frase breve, lapidaria, neanche letta ad alta voce dal personaggio, ma lasciata ai suoi occhi e a quelli dello spettatore. Mentre suona la musica di Mozart e i due parlano del padre musicista di lui, l’inquadratura passa da una ripresa dall’alto, leggermente inclinata, del giradischi, alla soggettiva di Michel sul libro. Un leggero movimento di macchina a scendere svela la scritta attaccata sulla copertina.
Anche nella messinscena della soggettiva Godard “devia” dalle regole classiche; risulta difficile infatti vederla come inserita in un sintagma, aperto, chiuso, alternato o rovesciato che sia. Non vi è successione tra oggettiva del personaggio che guarda e soggettiva di ciò che è guardato. Si potrebbe forse parlare di soggettiva differita in quanto, prima che Patricia metta il disco, si vede, in un piano d’insieme in campo medio, dall’alto verso il basso, Michel prendere un libro in mano. L’enunciazione della soggettiva è dunque ritardata dall’inquadrata del giradischi. Nonostante questo iato, e il continuo della colonna sonora come se nulla fosse, lo spettatore rimane comunque attirato dalla visione della copertina, ultimo avviso prima dell’epilogo.
La frase «Nous sommes des morts en permission» esplicita dunque l’imminente morte del protagonista; si tratta del terzo e ormai inequivocabile avviso sul finale del film. Sebbene attribuita da Godard a Lenin, il vero autore della frase è Leviné, che la usa per parlare dei comunisti: «We Communists are all dead men on leave» (29). Neanche la scelta di un romanzo di Maurice Sachs è casuale. Autore dallo stile di vita controverso, durante la seconda guerra mondiale fu spia e delatore. Il tradimento di Sachs verso la patria, invasa dai nazisti, rimanda a quello di Patricia verso l’amato (30). In conclusione, la costruzione dei meccanismi prefigurativi in Fino all’ultimo respiro non passa attraverso una citazione “forte”, come può essere la lettura del Ritratto ovale in Questa è la mia vita, ma si costruisce via via con lo sviluppo dell’intreccio, per tappe successive a partire dalla metà del film. Al tempo stesso, la scelta di espressioni letterarie del Novecento dimostra la versatilità del regista e la sua abilità nel muoversi attraverso la storia letteraria occidentale. Insomma, se Fino all’ultimo respiro è un manifesto programmatico della poetica godardiana, già in esso emerge una chiara idea del collage di materiali culturali differenti che caratterizza tutta la prima fase del cinema di Jean-Luc Godard.
(1) Gilles Deleuze, Cinéma 2. L’imagine-temps [1985], Paris, Minuit, 1994, p. 244.
(2) Hans Lucas, « Defénse et illustration du découpage classique », in Cahiers du Cinéma, 15, settembre 1952, pp.28-32.
(3) Gianni Rondolino, La nouvelle vague, in Storia del cinema, vol. III, UTET, Torino, 1977, pp. 205-268, p. 205.
(4) Cfr. Antoine de Baecque, Godard. Biographie, Paris, Grasset, 2010 e Alain Bergala, Godard au travail. Les années 60, Paris, Cahiers du Cinéma, 2006.
(5) Giorgio Tinazzi, La citazione, in La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 125-130.
(6) Per approfondire la suddivisione in sequenze del film si veda Francis Vanoye, La regola del gioco, Torino, Lindau, 2007, pp. 27-33. Per un’analisi della sequenza della danza macabra si veda invece Gianni Rondolino, Dario Tomasi, Il manuale del film, Torino, UTET, 2018, pp. 193-197.
(7) G. Tinazzi, La scrittura e lo sguardo, cit. pp. 122-124.
(8) Su questione dell’orizzonte di attesa e della ricezione si veda la Scuola di Costanza con Wolfgang Iser, L’atto della lettura. Teoria della risposta estetica, Bologna, Il Mulino, 1978 e Hans Robert Jauss, Estetica della ricezione, Napoli, Guida, 1988.
(9) G. Tinazzi, La scrittura e lo sguardo, cit. pp. 126-127.
(10) Dario Tomasi, Esercizi di stile e Nouvelle Vague: «Questa è la mia vita» in Analisi del film e storia del cinema, Torino, UTET, 2023, pp. 279-302, p. 282.
(11) Nel suo discorso, Parain situa la morte di Porthos nel secondo libro del ciclo, Vent’anni dopo. In realtà, essa avviene alla fine dell’ultimo romanzo della trilogia, Il visconte di Bragelonne.
(12) V. F. Perkins, Vivre sa vie, in Ian Cameron (a cura di), The films of Jean-Luc Godard, London, Studio Vista, 1967, pp.189-196, p.39 in D. Tomasi, Esercizi di stile e Nouvelle Vague: «Questa è la mia vita», cit. p. 296.
(13) D. Tomasi, Esercizi di stile e Nouvelle Vague: «Questa è la mia vita», p. 297.
(14) Ivi, p. 299.
(15) Jean-Luc Godard, Questa è la mia vita, in Cinque film, a cura di Gianni Rondolino, Torino, Einaudi, 1972, pp. 111-161, p. 159.
(16) D. Tomasi, Esercizi di stile e Nouvelle Vague: «Questa è la mia vita», pp. 296-297.
(17) Ivi, cit. p. 297.
(18) Ibidem.
(19) Dario Tomasi, Lezioni di regia, Torino, UTET, 2004, pp. 125-126.
(20) Ibidem.
(21) Paolo Bertetto, Fino all’ultimo respiro in Silvio Alovisio (a cura di), Jean-Luc Godard, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 69-88, cit. p. 69.
(22) Ivi, cit. p. 70.
(23) Ivi, pp. 84-85.
(24) Jean-Luc Godard, Fino all’ultimo respiro, in Cinque film, a cura di Gianni Rondolino, Torino, Einaudi, 1972, pp. 2-109, p. 57.
(25) P. Bertetto, Fino all’ultimo respiro, p. 81.
(26) Ivi, p. 82.
(27) Non fidarti, Jessica / al filo dei baci / gli anni passano troppo in fretta / evita, evita, evita / i ricordi infranti (trad. Rondolino).
(28) Jean-Luc Godard, Fino all’ultimo respiro, cit. pp. 86-87.
(29) Giulia Abbadessa, «La letteratura nel cinema di Godard (1960-1967)», Lea, Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, 8, 2019, pp. 313-325, p.318.
(30) R. F. Lack, «À bout de souffle: The Film of the Book», Literature/Film Quarterly, XXXII, 3, 2004, pp. 207-212.
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