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Ti trovi qui: Home / Articoli / 45 anni fa usciva nelle sale Taxi Driver di Martin Scorsese

45 anni fa usciva nelle sale Taxi Driver di Martin Scorsese

Luca Biscontini Articoli Feb 8th, 2021 0 Comment

Rivedere Taxi Driver, dopo quarantacinque anni, nella magnifica nuova edizione in blu ray, che ridona l’antico splendore al film, non solo rispetto alla bellezza delle immagini, ma anche e soprattutto alle meravigliose musiche di Bernard Herrmann, provoca un piacere non esprimibile, che eccede la possibilità di poterlo riferire: i colori saturi dei titoli di testa, assieme a quella nebbia provocata dalle emissioni fumose dei pertugi disseminati negli spazi della metropoli, sulle note di un sax perturbante e ostinato, fanno sprofondare immediatamente lo spettatore in un’atmosfera opprimente, in un’oscurità da cui non si riesce mai davvero a riemergere: è il tappeto nero della notte del mondo, e Travis Bickle – il corpo quasi non più umano di Robert De Niro – incarna esattamente quella definizione espressa da Gilles Deleuze ne L’immagine-movimento, in cui, sottolineando alcuni dei caratteri salienti di una certa nuova onda cinematografica, si segnalava “l’andare-a-zonzo negli spazi sconnessi della metropoli”.

“Il potere occulto – dice Deleuze – si confonde con i suoi effetti, i suoi media, le sue radio, le sue televisioni, i suoi microfoni: esso non opera più che attraverso la riproduzione meccanica delle immagini e dei suoni” e, dunque, in questo senso, Bickle è totalmente invischiato in una rete invisibile che lo condanna ad essere perennemente preda dei cliché correnti di un’epoca o di un momento. I pensieri che brancolano nella testa dell’insonne autista sono indotti, è come se la miseria sociale che denuncia a più riprese fosse fatalmente penetrata in lui e, quindi, a quel punto si è completamente realizzata la sussunzione, il soggetto si è ridotto a corpo ambulante che esegue ordini impartiti dalle immagini e dai suoni di un potere che si è organizzato capillarmente attraverso l’infinita moltiplicabilità della riproduzione tecnica (e non tiriamo in ballo Benjamin). Uccidere il candidato alle elezioni presidenziali o salvare, con un’inusitata violenza, una ragazzina (Jodie Foster) dalle grinfie di un giro di malviventi che la sfruttano non comporta una differenza sostanziale, almeno sul piano squisitamente estetico, nel senso che ciò che viene a mancare in entrambi i casi – sebbene vada riconosciuta l’acuta critica mossa da Scorsese – è una nuova immagine che con la sua comparsa si ponga in maniera antagonista rispetto al flatus vocis dell’incessante dispositivo organizzato dal capitale. Scorsese, altresì, è abilissimo, probabilmente inarrivabile, a sviscerare tutti i meccanismi occulti che operano nel continuo esercizio del plagio etico ed estetico.

Dice Deleuze: “In Taxi Driver, Scorsese fa un catalogo di tutti i cliché psichici che si agitano nella testa dell’autista e, nello stesso tempo, dei cliché ottici e sonori della città-neon che vede sfilare lungo le strade: egli stesso, dopo la strage, sarà l’eroe nazionale di un giorno, accedendo allo stato di cliché, senza che per questo l’avvenimento gli appartenga”. La solitudine insuperabile in cui è avviluppato Bickle è il sintomo del mancato processo di soggettivazione, laddove non interviene quel gesto radicale che davvero permetterebbe non solo di smascherare i cliché (operazione comunque utile) ma di porvisi in reale contrasto, producendo una rottura che, sebbene non si può esattamente prevedere dove conduca, costituisce l’unica possibilità reale di evasione.

Seguendo, altresì, alcune suggestive indicazioni che Slavoj Žižek fornisce in uno dei suoi testi teoricamente più rilevanti, Il soggetto scabroso, potremmo dire che Bickle si trova entro lo spazio della pulsione di morte, lo spazio tra le due morti, quella simbolica e quella reale. “Per un essere umano – afferma Žižek – ritrovarsi ‘morto mentre vive’ significa essere colonizzato dal ‘morto’ ordine simbolico; ritrovarsi ‘vivo mentre è morto’ significa dare corpo ai resti della sostanza-vitale che è sfuggita alla conoscenza simbolica (‘lamella’)”. Travis Bickle si trova esattamente in questo stato di sospensione, è un morto mentre vive ed è vivo mentre è morto: da un lato non riesce ad avere una vita relazionale minima – straordinario, in tal senso, il fallimentare appuntamento con Betsy (Cybill Shepherd) -, è invisibile, senza alcuna risorsa affettiva, completamente annichilito nel suo isolamento, dall’altro ha una forza sovrumana, non dorme mai, gira spettralmente per le strade come uno zombie, il suo tenore intellettuale è bassissimo, non ha un vero desiderio sessuale, è semmai attratto dal ‘porno’, nel senso beniano della svogliatezza (avvilente il dialogo con Wizard, che gli consiglia di ubriacarsi e andare a donne).

Travis, dunque, nel suo stato di sospensione, di eccedenza, avrebbe la possibilità di accedere a una nuova soggettività liberata dai vincoli opprimenti dei cliché metropolitani, superbamente restituiti da Scorsese, eppure, invece di prodursi in un gesto davvero di rottura (che non è neanche, per essere chiari, uccidere il candidato), viene definitivamente risucchiato dalla rete invisibile che già da sempre lo avvinghiava, perdendo una preziosa occasione che è – questo pare anche in definitiva essere il senso delle parole di Deleuze – di natura etica-estetica, non politica. Il politico è fermamente ancorato alla decrepitezza dell’ordine simbolico, che lo informa completamente; è solo dando corpo a nuove figure dell’essere, deformando il pensiero e mostrando, in una dimensione intersoggettiva, il processo di rielaborazione delle forme che si può pensare di liberare un’energia nuova che riformuli in maniera significativa quanto si pone ossessivamente uguale.

La spia della definitiva sussunzione è costituita proprio dalla sequenza finale in cui Travis, ormai ‘eroe’, incontra di nuovo l’angelica Betsy, come se si fosse, in un certo senso, verificata una riconciliazione; Travis da ‘soggetto eccentrico’ che poteva diventare ritorna in quell’ordine simbolico che lo aveva sempre respinto e, presumiamo, riuscirà, da quel momento in poi, a vivere un’esistenza più ragionevole, magari seguendo i desolanti suggerimenti di Wizard (la spregevolezza di questo personaggio ‘minore’ abbozzato da Scorsese davvero impressiona, perché incarna esemplarmente ‘la banalità del male’, la sua apparente normalità, l’incapacità di opporsi a un corso degli eventi che, sebbene esecrabile, si ritiene in-trascendibile).

Nel 1976 Martin Scorsese realizzava un capolavoro di acutezza di sguardo, penetrando profondamente all’interno dei meccanismi di un mondo insostenibile, invivibile, nauseante, cercando di dare corpo, grazie all’impareggiabile sceneggiatura di Paul Schrader, al tentativo – fallito – di un uomo di opporvisi. Un cristo senza croce, che ha sfiorato la santità, ma che è impietosamente ricaduto (la ricaduta maniacale), condannato alla prosaicità di un presente sempre decentrato, a scorrere passivamente nella torbida corrente di un male che non smette di compiersi.

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Luca Biscontini

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