Si è spenta oggi, all’età di 83 anni, Piera Degli Esposti. Due David di Donatello, due Nastri d’argento, due Premi Flaiano e tantissime candidature ai riconoscimenti più prestigiosi del cinema italiano. Piera Degli Esposti non era solo una straordinaria interprete, ma un esponente a tutto campo del mondo della cultura italiana. Al teatro degli esordi nei gruppi sperimentali, segue una strabiliante carriera cinematografica: partecipò a Questi fantasmi di Renato Castellani, a Medea, diretto da Pier Paolo Pasolini e Sotto il segno dello scorpione dei fratelli Taviani.
All’inizio degli anni Ottanta recita per Nanni Moretti in Sogni d’oro. Marco Ferreri sarà in questo periodo il primo a sfruttare le sue doti di sceneggiatrice, nel film da lui diretto Il futuro è donna, interpretato dalla stessa Piera, in una parte minore, da Ornella Muti e Hanna Schygulla. In seguito sarà diretta da Lina Wertmüller che la sceglie per tre suoi film, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada, Il decimo clandestino e Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica. Nel 1986 vince il Nastro d’argento per la sua interpretazione di Teresa in La coda del diavolo diretta da Giorgio Treves. Nel 1996 recita nel film incentrato su Pasolini, Nerolio, diretto da Aurelio Grimaldi. Nel 2001 interpreta I Love You di Marco Ferreri e L’ora di religione di Marco Bellocchio, per il quale vince il David di Donatello per la migliore attrice non protagonista.
Esordisce alla regia di opera lirica dirigendo Lodoletta di Pietro Mascagni, La notte di un nevrastenico di Nino Rota e La voce umana di Francis Poulenc. Nel 2008 esce nelle sale Il divo di Paolo Sorrentino: in questa pellicola Piera interpreta Enea, storica segretaria di Giulio Andreotti, ruolo che le fa guadagnare un altro David di Donatello. Successivamente è sul set di Maria Sole Tognazzi con il film L’uomo che ama nel quale recita accanto a Pierfrancesco Favino, Marisa Paredes e Monica Bellucci.
Di seguito la mia recensione di Storia di Piera (1983), il film che Marco Ferreri dedicò alla grande interprete.
Metti insieme Dacia Mariani, Piera Degli Esposti e Marco Ferreri, oltre a un cast di attori straordinari (Hanna Schygulla, Isabelle Huppert e Marcello Mastroianni), e si ottiene un film di una bellezza commovente, in cui i paesaggi cittadini e marini diventano il magnifico spazio metafisico in cui si muovono i corpi delle protagoniste, in un misto di sensualità, tenerezza e affettività che raramente si era visto al cinema. Se, senza dubbio, la materia di partenza era efficacissima – il libro-intervista di Dacia Maraini sull’incredibile vita della grande interprete Piera Degli Esposti -, a donare un incalcolabile valore aggiunto al film è l’eccezionale sguardo di Marco Ferreri, che seppe far interagire meravigliosamente due donne (madre e figlia) tra loro, inserendole in un contesto anti naturalistico, non storicistico, in barba a qualsiasi logica di una rappresentazione convenzionale. È un tempo emotivo che Ferreri mette in scena, una durata, che non ammette eccessi di verbosità o le consuete narrazioni, piuttosto richiede lo sprofondamento in una provvidenziale afasia, attraverso cui veicolare la potenza emotiva di un rapporto straordinario, pulsante, non catalogabile.
Le espressioni dei volti di Schygulla e Huppert valgono più di molte inutili parole, che non avrebbero fatto altro che congelare l’intensità di una relazione filiale incontenibile. Il padre-marito, un professore-sindacalista, interpretato dall’ottimo, come sempre, Mastroianni, è una figuretta maschile inconsistente, che nel suo incarnare l’ordine simbolico, la ragionevolezza, evapora quasi di fronte all’eccedenza di un rapporto (femminile) che smarca qualsiasi limite, deterritorializzandosi senza sosta. In tal senso, si potrebbe affermare che la malattia mentale di Eugenia (la madre) e il divenir-attrice della figlia (Huppert) costituiscono l’esito del movimento delle linee di fuga delle due donne: la prima si scontra contro il muro semiotico del capitale, rimanendo fedele a se stessa fino in fondo; l’altra, grazie alla mediazione della passione per la recitazione, riesce a non farsi risucchiare nell’abisso della follia, trovando nell’arte, nei classici e nel mito una fonte cui attingere per mantenere una quota minima di senso cui aggrapparsi tenacemente.
Due sequenze in particolare rimangono indelebilmente impresse nella memoria: una è quella in cui Eugenia viene sottoposta, quasi con la forza, a una seduta di elettro shock; la piccola Piera (interpretata dalla bravissima Bettina Grühn), assistendo alla violenta operazione, non può fare a meno di emettere un grido, mentre il suo volto guarda in camera in un primissimo piano sconvolgente. L’altra è nel finale, dove i corpi nudi di madre e figlia si incontrano, in un momento di poeticissima riconciliazione, sebbene il legame, nonostante gli anni passati a distanza, non si sia mai davvero deteriorato. È un rapporto di odio e amore intensissimo il loro, che non teme lo scorrere del tempo o la dislocazione nello spazio. La bellezza di Piera, la sua ostinata compostezza, a fronte di situazioni spesso estreme (come quando ruba l’amante alla madre per vendicare l’onore ferito del padre), è magnificamente restituita da Marco Ferreri.
In tutto il suo cinema, il regista ha sempre proposto una dialettica in cui i termini non erano più proletariato e borghesia, ma maschio e femmina: sempre di rapporti di potere si trattava, ma sul piano iconografico, questo mutamento dei fattori ha comportato la possibilità di sviluppare un immaginario ricco, pregnante, significante. Una metaforizzazione che ha prodotto un surplus di senso sempre circolante all’interno dei suoi film: un fuori campo assoluto che riverberava su storie surreali, talora criptiche (per qualcuno), ma dotate di una potenza simbolica capace di penetrate lo spettatore da parte a parte. Con Storia di Piera, in tal senso, si può considerare definitivamente superata la contesa: il futuro, per dirla con lo stesso Ferreri, è donna, senza dubbio.
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