Il 21 settembre è uscita su Netflix, Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, di Ryan Murphy che, in pochissimi giorni, con appena 10 episodi, è diventata la serie tv più vista al Mondo.
Da sempre Netflix è la piattaforma che offre la più ampia vetrina del true crime con migliaia di serie tv, docuserie, film e documentari che appassionano sempre più spettatori ogni giorno. Ryan Murphy però riesce a toccare un punto all’interno di ogni spettatore, dove nessun altro è mai arrivato, grazie anche all’eccezionale interpretazione di Evan Peters nel ruolo del cannibale di Milwaukee.
Gli episodi spaziano per tutto il trentennio in cui il Serial Killer è vissuto, dagli anni Sessanta in cui era un bambino, fino agli anni Novanta quando viene ucciso in prigione. Nel primo episodio assistiamo alla cattura di Jeff e per tutto il resto delle puntate conosciamo lui e i fatti attraverso i sui racconti durante l’interrogatorio e i flashback del suo passato. Il Dahmer bambino era silenzioso e introverso, cresciuto in una famiglia problematica, abbandonato dalla madre appena maggiorenne e con un padre assente con cui si sente legato solo quando dissezionano insieme carcasse di animali. Saranno proprio il divorzio dei suoi genitori e la successiva partenza della madre col fratellino a scatenare questa sua inclinazione, aiutato anche dal fatto che ora ha a disposizione una casa tutta sua dove nessuno lo controlla.
Ognuno degli episodi ci mostra un Jeffrey Dahmer attraverso un punto di vista diverso, dovuto anche dai vari registi che si sono avvicendati per tutta la serie. La fotografia è cupa e trasmette oppressione, tanto che lo spettatore si sente sollevato solo alla fine dell’episodio. Poca musica, tanti primi piani lenti e costruiti ad hoc che fanno sentire chi osserva letteralmente in trappola come le sue vittime.
A differenza di quanto ci si possa aspettare, le scene violente sono ridotte al minimo proprio per dare più spazio possibile alle persone che ruotano intorno al Serial Killer. Il pugno allo stomaco che si prova andando avanti con la visione infatti non è dato da scene macabre, che sono pressoché assenti, ma dal disagio psicologico che la narrazione trasmette a suon di Please don’t go, per favore non andare, che è appunto il tema del dramma raccontato.
Il true crime che tanto appassiona e incuriosisce lo spettatore ultimamente è di solito incentrato solo sui fatti, che sia narrato o documentato. Ciò che attrae il pubblico è l’osservazione analitica del fatto in sé, nudo e crudo. Questa serie invece riesce a tenere lo spettatore incollato al televisore, grazie al genere di narrazione che fa vivere a chi osserva tutto il dolore, la sofferenza, la solitudine e la disperazione non solo delle vittime e le loro famiglie, ma anche di Dahmer stesso.
Ciò che hanno fatto Murphy e Brennan e che ha reso questa serie vincente su tutti i punti è stato proprio andare oltre, non limitarsi ad osservare e raccontare ma approfondire i personaggi che ruotano intorno a Jeffrey. Lo spettatore soffre insieme ai suoi genitori che non riescono a farsi una ragione di come un bambino tanto dolce possa essere diventato un mostro spregevole e si lasciano quindi sopraffare dal senso di colpa. Soffre insieme alle vittime e i loro familiari e alla nonna che intravede il mostro dentro il ragazzo e cerca di fare tutto ciò che è in suo potere per aiutarlo. Soprattutto però soffre insieme a Glenda Cleveland (Niecy Nash) una delle donne più forti che hanno gravitato intorno a lui, che per anni ha allertato la polizia senza essere ascoltata e attraverso cui ci viene mostrata la grande corruzione delle forze dell’ordine americane tra gli anni Sessanta e Ottanta.
Gli sceneggiatori, proprio attraverso il punto di vista di Glenda, hanno voluto soffermarsi sul mostrar come “il diverso” fosse, in quegli anni, emarginato e discriminato. La polizia era corrotta dal pregiudizio e, senza saperlo, ha permesso a un assassino bianco americano di agire indisturbato per anni solo perché le sue vittime erano ragazzi gay appartenenti a minoranze etniche.
Nel suo complesso la serie è davvero ben costruita e le poche critiche che le vengono mosse sono in realtà paure più che giustificate che si possa cadere fin troppo facilmente nella spettacolarizzazione del dolore che la serie in realtà condanna. Evan Peters stesso ha definito quello di Jeffrey Dahmer il ruolo più spaventoso e difficile della sua carriera, ma il tipo di regia e sceneggiatura rischiano di rendere umano un vero e proprio mostro agli occhi di chi guarda facendo empatizzare troppo lo spettatore con il personaggio che non è stato altro che un essere disumano e senza anima.
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