L’humour ha in sé qualcosa di liberatorio…l’Io rifiuta di lasciarsi scalfire, di lasciarsi imporre la sofferenza dalla realtà esterna, si rifiuta di ammettere che i traumi del mondo esterno possano toccarlo; anzi dimostra che questi stessi traumi possono diventare per lui occasioni di piacere (Freud, “Il motto di spirito”)
Peter Lorre è stato forse lo psicopatico più credibile della storia del Cinema. La sua carriera fu indubbiamente segnata dal capolavoro di Fritz Lang M. Il mostro di Düsseldorf (1931), in cui interpreta Hans Beckert, un assassino seriale di bambine. Con il suo viso rotondo dagli occhi sporgenti, il sorriso mellifluo e lo sguardo sfuggente, si aggira tra la folla di Berlino canticchiando un motivo tratto dal Peer Gynt di Grieg, divenuto famoso proprio grazie al film. Poi, al momento opportuno, nota una bambina che è lì da sola per strada e subdolamente la attira comprandogli da un mendicante cieco un palloncino colorato, la porta con sé chissà dove… e infine la stupra e la uccide. Verrà riconosciuto proprio grazie al mendicante cieco, e grazie all’abitudine di canticchiare quel motivetto. A partire da questo film Peter Lorre entra nell’immaginario collettivo. È lui la prima icona cinematografica di quello che si può definire il prototipo del serial-killer moderno.

Arsenico e vecchi merletti
Come molti rappresentanti del Cinema espressionista tedesco tra gli anni ’20 e ’30 Peter Lorre, all’avvento del nazismo, lui che era ungherese di origini ebree, fu costretto ad emigrare in America, dove riuscì ad imporre la sua “maschera” di criminale folle in film come Mad Love (Amore folle, 1935, regista Karl Freund), oppure “The Maltese Falcon” (Il mistero del falco di John Huston, 1941, da alcuni considerato il primo noir americano), e dove divenne molto popolare, a suo modo una star. Hollywood aveva trovato il perfetto interprete che incarnava la mostruosità morale, quella che si nasconde dietro un aspetto fisico apparentemente normale e una condizione sociale rispettabile. Quasi un’evoluzione del Mostro cinematografico per eccellenza, rappresentato dal volto e dall’immagine di Boris Karloff.

Arsenico e vecchi merletti
Arsenico e vecchi merletti, di Frank Capra (1944), contiene un po’ tutti i motivi che caratterizzano il Cinema americano a partire dagli anni ’40. Forse era l’atmosfera della guerra, una certa serpeggiante paura collettiva che si trasmetteva anche al Cinema e alla Letteratura, che favorì la nascita di un gran numero di pellicole noir, spesso ispirate ai cosiddetti romanzi hard-boiled (polizieschi che raccontano il crimine in maniera diretta ed esplicita). Alla gran voglia di esorcizzare il Male, il terrore, la violenza che bussava alla porta di casa dell’americano medio, il Cinema rispondeva a suo modo, con film che spettacolarizzavano la violenza, rendendola attraente, quasi eccitante. L’idea che potesse esistere un umorismo macabro, o humour nero, venne proprio in quegli anni ad André Breton, inventore e teorico del Surrealismo. Il libro “Antologia dell’humour nero” (1939) lascia una traccia importante nella cultura del tempo, anche se in Francia fu proibito durante l’occupazione tedesca e venne ripubblicato solo alla fine della guerra. E sull’umorismo macabro, o humour noir come lo chiamava Breton, è basato il film di Frank Capra, trasposizione per il grande schermo di una commedia di grande successo a Broadway (1939, autore Joseph Kesselring). Arsenico e vecchi merletti è la vicenda di una famiglia, i Brewster, che in un solo giorno (il 2 novembre, giorno dei morti) rivela la propria insospettabile immagine criminale; come se dentro la normalità assoluta di un tranquillo quartiere newyorkese, Manhattan, di colpo venisse alla luce la mostruosità degli assassini seriali alla Hans Beckert; ma questo in una chiave decisamente umoristica, e con la raffinatezza e il gusto del miglior cinema americano classico, di cui Frank Capra è indubbiamente un maestro.

Arsenico e vecchi merletti
Costruito come una parodia del genere horror (in particolare del film Frankenstein, di James Whale, 1931), ma anche dei film noir, in cui ci sono molti morti e il protagonista non di rado è un serial-killer, come lo chiameremmo oggi, Arsenico e vecchi merletti ha finito per diventare la prima black-comedy americana. Anzi, la prima in assoluto, una specie di prototipo che ha ispirato film famosissimi come Kind Hearts and Coronets (Sangue blu, 1949, film inglese con un incredibile Alec Guinness), o come “Monsieur Verdoux”, uno degli ultimi film di Chaplin, basato su un caso di cronaca che aveva scioccato il mondo intero, il caso Landrù. Capra mise insieme attori straordinari, tra cui anche Peter Lorre, (la cosa potrebbe stupire, ma la sua maschera malvagia si prestava benissimo ad essere caricaturizzata, come dimostra il personaggio dei Cartoons della Warner Bros, dottor Lorre, lo scienziato pazzo antagonista di Duffy Duck). Raymond Massey interpreta Jonathan Brewster, un pazzo fuggito da un manicomio criminale, che, opportunamente truccato, ha la faccia praticamente identica a quella di Boris Karloff nel ruolo del Mostro di Frankenstein. Peter Lorre è il Dottor Einstein (deformazione ironica di Frankenstein), compagno ed assistente del Mostro, un medico “chirurgo plastico” che sulla scena è perennemente alticcio (forse un’allusione all’originale interprete del dottor Frankenstein, Colin Clive, il quale era morto giovanissimo proprio a causa dell’alcolismo). È lui che con una maldestra operazione ha letteralmente “creato” quella faccia ormai così famosa in America. E poi ci sono Cary Grant, che interpreta Mortimer Brewster, un critico teatrale (l’alter-ego dell’autore), insieme a Priscilla Lane (Elaine Parker, figlia del reverendo Parker amico di famiglia dei Brewster), la mogliettina “ideale” che qualsiasi americano vorrebbe, tipicamente remissiva e devota, come si aspettava il pubblico di allora. Con loro e con i due sceneggiatori di Casablanca (i fratelli Epstein), Frank Capra confeziona questo piccolo gioiello della cinematografia hollywoodiana, una Commedia intessuta di umorismo macabro e piena zeppa di dialoghi surreali, situazioni al limite dell’assurdo, doppi sensi, allusioni... E un vertiginoso confondersi di verità e finzione, sogno e realtà. Per chi crede che questa “confusione” può dare al Cinema una marcia in più, quasi la consapevolezza della sua più nascosta vocazione, si tratta di un vero e proprio capolavoro.
La storia si svolge il giorno 2 novembre, festa di Halloween, di un anno imprecisato. Siamo in America dove, come recita una didascalia, certe cose possono accadere, e quindi talvolta accadono. La prima scena è una partita a baseball, apparentemente irrelata con tutto il resto del film. Scoppia una lite in campo, che poi si propaga velocemente anche sugli spalti. Quell’inutile e assurda violenza sembra un contagio che si diffonde con la rapidità di un fulmine, (se si pensa che il film era quasi pronto nel 1941, ma fu interrotto e distribuito solo nel 1944, è chiaro come questa scena rifletta la paura che in quegli anni avevano gli americani di rimanere coinvolti nella guerra che già infuriava in Europa). Poi la scena cambia completamente: Mortimer Brewster ed Elaine Parker sono in fila nell’ufficio matrimoni di Brooklin e aspettano il loro turno per sposarsi; ma Mortimer è anche un noto scapolo col viso e la prestanza fisica di Cary Grant. Critico teatrale e scrittore, famoso per aver scritto articoli su articoli contro il matrimonio, ha una gran paura di venire riconosciuto e dover dire addio alla sua preziosa reputazione. In effetti, dei giornalisti a caccia di scoop lo notano, anche se lui cerca di mimetizzarsi con dei grossi occhiali scuri e biascica il suo nome quando si trova davanti all’ufficiale che deve sposarli. Vorrebbe fuggire ma Elaine, la sua futura moglie, riesce a fargli superare questa piccola crisi. Si mostra così remissiva, così pronta ad accettare ogni sua decisione, anche a costo di rinunciare al matrimonio, che alla fine Mortimer, intenerito, la sposa. Quella sera stessa va a far visita alle sue due care zie, Abby e Marta, due “signorine” dall’aria innocua, conosciute da tutti come benefattrici (in effetti dedicano ogni attimo della loro giornata ad opere caritatevoli), con cui Mortimer praticamente è cresciuto. Mentre gli comunica di aver finalmente sposato Elaine, e che stanno per partire in viaggio di nozze, fa per puro caso una scoperta sconvolgente: nella cassapanca del live room c’è un morto, un uomo sconosciuto che potrebbe essere coetaneo delle sue zie (la scena del morto nella cassapanca è forse la più famosa e la più divertente di tutto il film). A partire da questo momento Mortimer si vede catapultato in una specie di sogno, o di incubo, dal quale cerca inutilmente di risvegliarsi… presto le scoperte saranno così tante e inequivocabili che lui dovrà per forza adattarsi a questa nuova realtà. Per prima cosa viene a conoscenza che le sue due zie sono tutt’altro che innocue, perché gli spiegano nei dettagli come hanno ammazzato non uno, ma ben dodici uomini come quello nella cassapanca. Gli altri undici sono seppelliti in cantina grazie alla complicità inconsapevole del fino allora unico matto conclamato della famiglia, lo zio Teddy (tutti lo chiamano così perché è convinto di essere Teddy Roosevelt), e a cui le zie fanno credere che i cadaveri che seppellisce (loro non potrebbero, sono troppo pesanti!) sono morti di un’epidemia di febbre gialla. Mortimer si rende conto che le sue zie sono ignare di essere delle assassine seriali, convinte al contrario di fare del bene. Oltre ad occuparsi di un cimitero (la famiglia Brewster si è sempre guadagnata da vivere custodendo un piccolo cimitero attiguo alla loro abitazione: naturale dunque che il loro nipote si chiami Mortimer), da un po’ di tempo offrono un servizio aggiuntivo: apparentemente affittano una camera a dei forestieri, ma in realtà sono alla ricerca di uomini soli, uomini che non hanno più nulla da chiedere alla vita, se non di passare a miglior vita nella maniera più dolce possibile, e dopo aver simpatizzato con loro, col pretesto di offrirgli da bere un goccetto di vino, li avvelenano con intrugli a base di arsenico. Candidamente spiegano a Mortimer che nel vino l’arsenico non ha sapore, a differenza che nel tè o in altre bevande; poi gli spiegano nei dettagli come preparano i loro intrugli, una mania che hanno ereditato da una zia farmacista (del resto, in questa logica onirica, il nome della famiglia Brew-ster non può che alludere agl’intrugli). Dopo poche scene siamo già in un’atmosfera surreale, dove regna una disinvolta follia. Ma non è tutto, perché presto si materializza un altro membro della famiglia, forse il più inquietante: Jonathan, fratello maggiore di Mortimer (allusione al grande scrittore inglese Jonathan Swift, che di umorismo macabro se ne intendeva). Jonathan è fuggito da un manicomio criminale, ed è accompagnato dal dottor Einstein (Peter Lorre), e da un “fardello”, l’ennesimo morto di cui non sappiamo altro, appunto, che è morto per mano di Jonathan, che è molto pesante e ha delle scarpe enormi, e che si chiama Spenalzo (e infatti è una pena doverlo alzare e trasportare).

Arsenico e vecchi merletti
Jonathan ha una faccia che non è la sua vera faccia ma è quella del Mostro (Boris Karloff) ed è piena di cicatrici, perché ha già tentato di cambiarla, con l’aiuto del dottor Einstein. Da questo momento in poi il film diventa un susseguirsi di situazioni surreali, imprevedibili e divertentissime. Esplode l’antipatia tra i due fratelli, che non si vedevano da anni ma che adesso sono decisi a regolare i loro conti. “Ti ricordi quando da bambino ti legavo al letto e ti ficcavo gli spilli sotto le unghie?” dice Jonathan a Mortimer appena lo incontra. Tra i due non è mai corso buon sangue, per di più adesso i loro propositi non collidono. Mortimer vorrebbe convincere le sue zie a non commettere più omicidi, e, ad un certo punto della storia, vorrebbe che seguissero il loro fratello matto, quello che si crede Teddy Roosevelt, in un rinomato manicomio dove finalmente per lui si è liberato un posto. L’unico modo -pensa- per mettere fine ai loro omicidi seriali. Jonathan, invece, che è stufo di quella faccia e ne vorrebbe una più comune (come dargli torto? tutti hanno la sensazione di riconoscerlo e la polizia è sulle sue tracce; il fratello Mortimer, appena lo vede, gli dice “ma dove hai preso quella faccia, a Hollywood?) vuole assolutamente liberarsi del “fardello”, seppellendolo in cantina assieme agli altri cadaveri; vuole liberarsi del fratello ammazzandolo (questo anche per pareggiare il numero di cadaveri della sua carriera criminale con quello delle zie, ne manca solo uno in effetti), e infine farsi operare di nuovo da quel genio del dottor Einstein. La commedia fila via piacevole, tra battute di humour nero e situazioni che continuamente capovolgono le sorti, mantenendo in bilico l’esito finale, finché non si arriva all’epilogo: Mortimer riesce finalmente a far arrestare Jonathan e a mandare tutti i matti della sua famiglia in manicomio, mentre il dottor Einstein, pur essendo complice di diversi omicidi, riesce a defilarsi. Non prima, però, di essersi reso disponibile a firmare per l’internamento delle signorine Brewster (c’è il sospetto che sia un medico fasullo, ma che importa?) In effetti lo zio Teddy, che in quanto fratello sarebbe il parente più prossimo delle signorine, ha la tendenza a firmare come Teodoro Roosevelt Presidente in carica; e neanche Mortimer può firmare, come veniamo a sapere dalle stesse zie Abby e zia Marta: lui non è un vero Brewster, è il figlio di una loro vecchia cuoca e di un “cuoco di mare”, il quale era partito per destinazione sconosciuta appena saputo della moglie incinta. A causa del loro buon cuore Abby e Marta avevano tenuto con loro non solo la cuoca ma anche il piccolo Mortimer, crescendolo come un figlio. Appreso che la tara mentale dei Brewster non lo riguarda, Mortimer fa ovviamente salti di gioia. Torna subito dalla sua Elaine, che fino a quel momento ha tenuto a distanza per non cadere in tentazione, e i due sono finalmente pronti a “consumare” il loro matrimonio, ancora in bianco per paura che la tara della follia potesse trasmettersi ai loro figli.

L’âge d’or di Luis Buñuel.
Se Arsenico e vecchi merletti non si può considerare un vero e proprio film surrealista, come L’Age D’or (1930) di Bunuel, o Un Chien Andalou (1929, dello stesso Bunuel in collaborazione con Salvador Dalì), è perché la dimensione onirica non invade completamente la realtà ordinaria facendola a pezzi, in base al principio (che è anche il motto dei surrealisti) di épater les bourgeois.
Al contrario, nella Commedia di Capra la realtà ordinaria continua a far valere i suoi diritti, che sono quelli del buon senso comune (Mortimer Brewster-Cary Grant lo incarna perfettamente questo buon senso, col suo spirito sempre pronto a trovare una soluzione ragionevole e pratica alle situazioni più assurde). Un’atmosfera giocosa e un’ironia garbata sono fin dall’inizio la vera cifra di questa Commedia, in cui i Mostri e i serial-killer riescono per la prima volta a far ridere e ad essere rassicuranti, anche perché è chiaro fin dall’inizio che si tratta di finzione: sono Mostri di celluloide come Boris Karloff lì sullo schermo, mostri che interpretano sé stessi! (Frank Capra avrebbe voluto proprio Boris Karloff nel ruolo di Jonathan Brewster, il quale del resto già lo interpretava a teatro). Questo piccolo miracolo cinematografico si deve anche al potere del Cinema di creare icone, e al suo rapporto diretto, quasi immediato, con l’immaginario collettivo (a differenza della Letteratura, che ha tempi più lunghi). Insomma, da questo momento in poi Hollywood, la più grande industria culturale del secolo scorso, un’industria che non solo si serve dell’immaginario ma lo produce anche direttamente, trova la formula per esorcizzare la paura dei Mostri che si nascondono nella nostra realtà quotidiana; e per avvicinarci ad essi e farci empatizzare, quasi si trattasse di nostri compagni di viaggio.
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