In Corea del Sud c’è una piccola isola, Jeju, spazzata dal vento dove i mandarini maturano piano sotto il sole e dove la terra conserva le storie e gli amori come reliquie. È proprio qui che viene ambientata la serie Netflix Quando la vita ti dà mandarini che non si fa notare con l’impatto dei colpi di scena, ma arriva dritta al cuore con la delicatezza delle cose non dette e con un ritmo lento ma potente come il susseguirsi delle stagioni.
In un momento pieno di serie rumorose, sconvolgenti e di grande impatto visivo, questo drama storico arriva come una tisana calda in un giorno di pioggia: semplice, emozionante e confortante.
La forza di questa storia non sta nei colpi di scena ma nella tenacia con cui viene raccontata la fragilità umana, ricordando allo spettatore che il passato, anche quello personale, è sempre più vicino di quanto pensiamo.
I due protagonisti crescono insieme e con la loro crescita ci viene mostrato anche il lento cambiamento della popolazione dell’isola. Il loro rapporto attraversa l’intera serie come un filo tanto sottile quanto indistruttibile. La loro è una storia di distanze e silenzi, fatta più di sguardi che di parole.
IU interpreta Oh Ae-sun con una grazia struggente e mai compiaciuta. È una ragazza irrequieta che sogna di diventare poetessa in un mondo che non lascia spazio ai sogni delle donne. Il suo desiderio non è ambizione ma sopravvivenza spirituale. Ha uno sguardo fiero ma gli occhi fragili, sente di non appartenere a nulla, nemmeno alla sua famiglia e Jeju per lei è solo una prigione.
Accanto a lei Park Bo-gum interpreta Yang Gwan-sik un ragazzo dolce, silenzioso, metodico e devoto che sembra vivere per aiutarla ad emergere e realizzare i suoi sogni. Lui non dice mai una parola di troppo, ma la ama in modo radicale e incondizionato. All’inizio non è ricambiato ma coltiva il suo amore con pazienza e questo crea una tensione narrativa unica: quella tra due persone che si amano, ma non sanno come dirlo senza ferirsi.
Ogni episodio si muove come una stagione, non solo nel senso proprio del termine ma anche esistenziale. Primavera, estate, autunno e inverno: i colori cambiano, le luci si abbassano e i dialoghi si diradano. La regia non ha fretta di stupire ma si affida alla potenza della sottrazione perché racconta la vita come è realmente: disordinata, a volte banale, ma attraversata da momenti di pura verità. In questo diverso modo di raccontare una storia c’è un profondo rispetto per il tempo che passa. Ogni puntata è un piccolo ritratto di una quotidianità a limitato impatto televisivo ma che trasmette una delicata intimità familiare. Il tempo non è un nemico da battere, come spesso accade in questo genere di racconti, ma un alleato narrativo. I mandarini maturano molto lentamente così come le persone che crescono a fatica piano piano. Le decisioni quindi richiedono stagioni per essere finalizzate e non pochi minuti.
L’isola di Jeju inoltre è molto più che un semplice sfondo narrativo, ma diventa essa stessa un personaggio. È una testimone silenziosa di una generazione che ha conosciuto la guerra, la povertà e la rinuncia. Le case basse, i muretti a secco e i campi di mandarini con le strade sterrate costruiscono un mondo che sembra uscito da un romanzo della nostra infanzia quando tutto era più piccolo ma anche più intenso.
Il vento che qui soffia incessante accompagna le tensioni dei personaggi. Il mare è spesso lontano ma sempre presente, come la libertà che si sogna ma non si può afferrare. Jeju ha una bellezza ostile, non accoglie ma mette alla prova le persone. Proprio per questo gli abitanti sembrano scolpiti nella pietra, grandi lavoratori che conoscono il vero sacrificio, duri e impassibili che raramente si abbandonano ai sentimenti.
Anche se ambientata negli anni Cinquanta, questa serie parla in modo diretto anche al nostro presente. Non fa prediche, non punta il dito, ma mette in scena le ingiustizie con estrema naturalezza: le donne che sono costrette a rinunciare a sé stesse per non turbare l’ordine familiare, gli uomini che amano in silenzio perché non hanno mai imparato ad esternare le loro emozioni e le famiglie che sono più oppressive che di supporto.
In Oh Ae-sun c’è racchiusa ogni ragazza che avrebbe voluto essere libera ma ha finito per rassegnarsi a ciò che la società si aspettava da lei. In Yang Gwan-sik c’è invece ogni ragazzo che è stato educato e cresciuto per essere forte e per questo si sente solo anche se amato. Quando la vita ti dà mandarini è una vera e propria critica sociale che non grida ma incide. Richiede pazienza e dedizione, ma soprattutto apertura emotiva. Non prende lo spettatore per mano ma lo invita a fermarsi, sedersi e guardare, come un vero e proprio invito a smettere di correre freneticamente ogni giorno e fermarsi ad osservare ciò che di bello si ha nel quotidiano, con profondità e delicatezza. Nell’invitarci a smettere di correre, ci insegna che l’amore vero non è fatto solo di fuochi d’artificio e passione ma anche di piccoli gesti, atti di cura e silenzi condivisi. Ciò che questa serie lascia alla fine della visione è una buona nostalgia, un dolce dolore e la voglia di tornare indietro nel tempo per vivere con più attenzione dei momenti che abbiamo dato troppo per scontati. Probabilmente non piacerà a tutti ma a chi saprà apprezzarla, regalerà uno degli sguardi più intensi degli ultimi anni sulla bellezza dell’imperfezione e delle emozioni non dette.
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