Nina, interpretata da Cristiana Capotondi, ha bisogno di un lavoro. Lascia la città e si trasferisce con la figlia in campagna, quindi, lavorando come inserviente in un’elegante villa per anziani gestita da privati e rappresentanti della chiesa.
Nina è una ragazza madre, condizione sottolineata con umiliazione sin da subito dai datori di lavoro. Svolge il suo lavoro con professionalità, con attenzione e con quell’umanità e gentilezza necessaria per il ruolo che ricopre. Ciò la porta ad essere apprezzata dagli anziani ospiti della villa, in particolare, da un’attrice di teatro (Adriana Asti). Una sera, a fine turno, Nina è convocata dal dirigente della villa che la molesta sessualmente. Nina scoprirà che Il dirigente perpetua da tempo l’abuso del proprio potere sulle lavoranti, al quale si ribellerà difendendo la propria dignità di donna e di lavoratrice. Affronterà non soltanto il dirigente della struttura, ruolo che Valerio Binasco ha accettato con il grande coraggio di calarsi nei panni dello sgradevole ripugnante molestatore, ma dovrà misurarsi con la disapprovazione delle altre colleghe, altre donne che come lei hanno subito molestie, ma sulle quali hanno taciuto.
“Nome di donna” firmato dalla regia di Marco Tullio Giordana, su un soggetto di Cristiana Mainardi, è il titolo del faldone che raccoglie denunce, testimonianze, istanze e requisitorie, ritratto in un fotogramma del film, al quale dà il titolo.
Potrebbe avere il nome di ogni donna quel raccoglitore di storia personale ma universale: un’indagine Istat, svolta nel 2008/2009, ha accertato che in Italia circa la metà delle donne, in un arco di vita tra i 14 e i 65 anni, ha subito ricatti sessuali sul lavoro. In numeri: 10 milioni e 485 mila donne. Un numero decrescente nel nuovo rapporto 2015/2016 (8 milioni e 816 mila donne) ma che conferma che quasi un milione e mezzo di donne ha subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro.
Lo ius prima noctis non sembra perdersi nella notte dei tempi, a quanto pare. Il diritto del signore a consumare la prima notte con la sposa del servo della gleba, è cambiata nella forma ma non nel contenuto ad esercitare il potere di assoggettare al proprio volere chi appare più debole, in senso gerarchico in un contesto lavorativo, e, quindi, ricattabile per la sopravvivenza che gli concede il salario del proprio lavoro.
Un film necessario, che mette lo spettatore di fronte all’emergenza di un cambiamento culturale negli uomini ma anche nelle donne. Perché ognuno, uomo o donna, sa benissimo cosa sta succedendo, sa qual è il limite, la linea d’ombra. Chi la oltrepassa sa benissimo di violare un confine.
Nome di donna sarà al cinema dall’8 Marzo con 200 copie, proprio in quella data nella quale morirono in un incendio donne lavoratrici, impossibilitate a mettersi in salvo perchè chiuse a chiave dai proprietari dell’azienda affinchè non facessero pause.
Il film è sostenuto da Amnesty International : “Consapevolezza, coraggio, denuncia e pieno accesso ai diritti, sono gli strumenti per combattere le violazioni dei diritti umani delle donne, di cui le molestie sono un esempio subdolo e insospettabilmente diffuso. In questo senso, la storia di Nina, che lotta con coraggio, nonostante le difficoltà, è simbolica e importante nell’affermare il diritto alla giustizia, che deve trovare una rete sociale pronta ad accoglierlo e sostenerlo”.
Consiglio di andarlo a vedere con i propri compagni, con i figli, le figlie. Affinchè sia chiaro e visibile che non esiste nessun signore, nessun padrone, nessun abuso, fisico, sessuale e psicologico che non possa essere sconfitto.
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