Il 2022 è un anno di centenari importanti nel campo della cultura e del cinema: Pier Paolo Pasolini (5 marzo), Ugo Tognazzi (23 marzo), Vittorio Gassman (il prossimo 1° settembre). Sono in corso eventi, mostre, convegni e altre iniziative per celebrare questi tre grandi artisti.
Più in sordina, a livello mediatico, è passato l’anniversario dei cento anni dalla nascita del regista Carlo Lizzani, nato a Roma il 3 aprile del 1922 e scomparso nel 2013, ma anche per lui è in corso un doveroso omaggio alla Casa del Cinema a Villa Borghese: l’evento dal titolo “Carlo Lizzani: la storia e le storie. La lunga stagione del Secolo Breve raccontata da un regista”, in programma per tutto il mese di aprile con proiezioni e tavole rotonde, progetto che si propone soprattutto di volgere uno sguardo attento alla visione della Storia e dei cambiamenti della società italiana che Lizzani, attraverso il cinema, ha saputo esprimere con grande impegno e senso civico.

Carlo Lizzani
Storico, critico e teorico del cinema, saggista, militante politico comunista e partigiano, sceneggiatore e aiuto regista per Roberto Rossellini (Germania anno zero, 1948) e Giuseppe De Santis (Caccia tragica, 1947), passato dietro la macchina da presa Lizzani ha saputo muoversi con disinvoltura dal documentario (Viaggio al Sud, 1949, Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato, 1950) e dalla poetica del neorealismo (Achtung! Banditi!, 1951) alle forme di un cinema più popolare debitore in parte dei generi americani come il poliziesco e il western: Ai margini della metropoli (1953), Il gobbo (1960), Svegliati e uccidi (1966), Requiescant (1967), Banditi a Milano (1968). Sempre attento osservatore della storia recente d’Italia, nella sua lunga carriera è tornato più volte sul dramma del fascismo e della seconda guerra mondiale: Il processo di Verona (1963), Mussolini ultimo atto (1974), Maria José, l’ultima regina (2002), Hotel Meina (2007).
Nel dicembre del 2002, nell’ambito delle ricerche per una tesi di dottorato dal titolo Immagini e presenze americane nel cinema italiano, lo avevamo intervistato, parlando della via italiana al cinema del secondo dopoguerra, della massiccia presenza hollywoodiana sul nostro mercato e dell’ambiguo gioco di rappresentazioni che (tra fascinazione e rigetto) ha accompagnato la diffusione in Italia delle forme della cultura di massa americana. Ecco i passaggi più significativi dell’intervista.
Sfogliando alcune annate del settimanale comunista «Vie Nuove», ho trovato un articolo datato novembre 1948 e firmato Carlo Lizzani, dal titolo Difendere il nostro cinema popolare, nel quale si inveiva violentemente contro il cinema americano parlando di una “grandiosa opera di corruzione e intorpidimento dei cervelli organizzata e centralizzata ad Hollywood dal capitalismo americano”. Sulle stesse pagine, però, la testata pubblicizzava film come Così vinsi la guerra (1944) e Preferisco la vacca (1946) interpretati dal comico Danny Kaye o il western Il fiume rosso (1948) con John Wayne. A cosa era dovuta questa vistosa contraddizione?
Mah… un conto era la battaglia immediata per la difesa di un cinema nazionale che aveva già dato prova di grande vitalità – non era la difesa di un cinema qualsiasi, era un cinema che aveva avuto già degli apprezzamenti, già degli Oscar, già dei riconoscimenti, anche se c’era in Italia chi non vedeva di buon occhio questo cinema – e quindi, oggettivamente, si guardava a Hollywood come a un nemico. Un conto era, invece, quello che io ricordo anche in molti articoli da quando ho cominciato a scrivere fino a sempre, e cioè la distinzione di un cinema americano che addirittura aveva contribuito ad accendere in noi qualche luce di carattere democratico nel conformismo dell’epoca del fascismo. E questo io l’ho sempre ribadito. Forse in quell’articolo non c’era un distinguo perché, nella battaglia immediata, non si poteva ogni volta fare la litania dicendo: “nel cinema americano c’è questo e quello”. Era un attacco frontale.
Certo, ma credo che i titoli che ho riportato non facessero parte di una vostra filmografia hollywoodiana ideale…
Beh, anche la stampa comunista spesso aveva degli impegni pubblicitari da rispettare.
Per quanto riguarda film italiani dell’immediato dopoguerra come Il bandito di Alberto Lattuada (1946) o Caccia tragica di Giuseppe De Santis (1947), che replicavano visibilmente forme e generi americani, si può parlare di un’influenza della lezione di Hollywood sul cosiddetto neorealismo ?
Beh, sì. I nostri modelli erano il cinema francese degli anni Trenta, il cinema americano del New Deal, il cinema sovietico, il cinema espressionista tedesco. Soprattutto su alcuni di noi – Lattuada e anche De Santis, nonostante fosse il più vicino al partito comunista, ed io – il modello americano esercitava un’indubbia suggestione. Anche Riso amaro si rifà molto alla drammaturgia del cinema americano. Mentre bisogna dire che, invece, Rossellini e De Sica erano lontani da quel modello. Invece nel Visconti di Ossessione, che è il capolavoro del cinema neorealista, le risonanze del film noir americano sono fortissime.
A proposito del film Il gobbo, del 1960, in una recensione pubblicata sul periodico «Filmcritica» c’era scritto: “Il limite del film è quello di aver voluto fare del Gobbo un eroe all’americana, cioè facile come certi personaggi dei film americani, tutto filato sino alla fine con quella simpatia spettacolare che gli eroi della malavita sanno assicurarsi sullo schermo”. Il protagonista corrispondeva allo stereotipo hollywoodiano del gangster dal cuore buono ?
No. A parte che nel cinema americano l’eroismo incarnato da certe storie di gangster non ha quella vena populista che aveva il Gobbo. Piuttosto, fa parte di quella definizione data da Fritz Lang secondo cui in America la distinzione non è tra buoni e cattivi, ma tra più cattivi e meno cattivi. Il cinema americano vede il gangster, magari, nel momento in cui viene punito, è in galera, soffre, e quindi appare come vittima… oppure nel momento in cui manifesta i suoi sentimenti per qualcuno. Nel mio personaggio c’era un’ambizione in più […]: personaggio alla Robin Hood che vuole tutto e subito, che fa la rivoluzione nella borgata e non capisce che in quel modo si emargina dalla società, dai grandi movimenti sociali. Non c’è parentela con gli eroi della malavita americana, è una miopia della critica l’aver visto questo legame.
Il modello americano è presente nel western Requiescant (1967) e ancora prima in Un fiume di dollari (1966), che lei firmò con lo pseudonimo di Lee W. Beaver.
Andava di moda, allora.
Però i primi film western di Sergio Leone erano già usciti…
A quell’epoca molti registi italiani, che non sentivano la vena poetica di Leone, preferirono non esporsi. Mi ricordo De Laurentiis che diceva: “vabbè, fai questo, poi però facciamo Il processo di Verona”, “facciamo un film più ambizioso”. Insomma, era come un momento di servizio alla produzione.
Lo pseudonimo serviva un po’ per mascherarsi…
Sì. Invece Requiescant, che era un modo per fare un tipo di western come fece poi anche Damiani, col sottofondo politico, mi piaceva. Aderì anche Pasolini e ci divertimmo a farlo con i nostri nomi.
Pietro Germi ha realizzato alcune pellicole il cui contenuto era ben calato nella realtà sociale italiana, ma la cui forma si rifaceva agli americani. Pensiamo a In nome della legge (1949) e Il brigante di Tacca del Lupo (1952). Non c’era discrepanza nel fare un film sul brigantaggio in Calabria o in Sicilia sotto forma di western ?
Faceva parte di questa lezione del cinema americano, che era il cinema per antonomasia, il cinema con cui arrivare al grande pubblico, perché anche i neorealisti avevano questa ambizione. I grandi film neorealisti spesso non hanno fatto una lira […] in molti di noi (Germi, Lattuada e anche il sottoscritto) c’era questa considerazione: “Cerchiamo di girare, di strutturare con le stesse astuzie hollywoodiane per arrivare alle grandi masse”.
Non comprometteva i contenuti…
No, mi pare che tutto sommato resti un corpo di film – quelli più validi almeno, poi ci sono film magari mancati – che si possono definire fortemente italiani.
(Roma, 14 dicembre 2002)
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