Un mese. Tanto è passato dal ritorno dei Green Day sulle scene della musica mondiale. Sono bastati trenta giorni al trio californiano per raggiungere una serie di traguardi importantissimi, dall’esordio in prima posizione nella prestigiosa Billboard 200 nella settimana del 29 ottobre, al primo posto raggiunto dal primo singolo Bang Bang nella Billboard Mainstream Rock Songs, nella stessa settimana. Completamente autoprodotto, 118mila copie nelle prime tre settimane, dal 7 al 13 ottobre capace di arrivare anche in testa alla nostrana classifica della FIMI come album più venduto, Revolution Radio è un silenzioso successo capace di far parlare per sè i suoi contenuti profondi, la sua sferzante critica alla società moderna, la voglia di cambiare il mondo con la forza della rabbia e dell’amore, come ogni rivoluzione che si rispetti.
Con dodici tracce e poco meno di quarantacinque minuti di sano punk-rock, Billie Joe Armstrong e soci ci raccontano a ritmi volutamente più o meno sostenuti gli USA e la società, il malessere generale di un mondo che cade a pezzi, distrutto dai suoi stessi abitanti. Senza mai abbandonare la speranza, i Green Day sfornano un lavoro applicativo senza precedenti su una frenetica e caustica realtà di violenza e terrore, di controllo e repressione, di addii e dolori. Cosa significa la rivoluzione? Cosa significa lottare? Le risposte della band californiana sono dure, sferzanti, urlate attraverso il mezzo radiofonico, quasi come se la loro rivoluzione fosse condotta proprio attraverso le frequenze di una radio clandestina (sulla falsariga di I Love Radio Rock). Tra collaudati power-chords ed azzeccati riff che richiamano gli album più apprezzati dei Green Day (da Nimrod a Insomniac, con qualche sprazzo di Dookie e Kerplunk!), non si disdegna però il ritorno a voci distorte e “radiofoniche”(tipiche del più recente 21st Century Breakdown, classe 2009) e passaggi più classic rock.
Cercare paragoni e riferimenti, soprattutto dal punto di vista stilistico-musicale, può risultare inevitabilmente deleterio. Se ¡Uno! ¡Dos! e ¡Tré! avevano fatto rimpiangere l’old school dei Green Day in maniera più che giustificata, nell’incapacità generale di trovare un serio cambiamento rispetto al passato, Revolution Radio è il vero punto di rottura che allo stesso tempo ricuce gli strappi dei tempi andati. I Green Day sono forse l’esempio più lampante di come l’evoluzione di una band sia inevitabile per la maturità stessa che i suoi componenti acquisiscono, soprattutto se si parla di una band in attività da 27 anni (e con membri che hanno iniziato poco più che ventenni). Billie Joe e compagni non avrebbero mai potuto continuare a cantare di delusioni amorose, voglia di ribellarsi, voglia di chiudersi in se stessi, disagio sociale, droga e stile di vita punk per l’eternità, o meglio, mai avrebbero potuto farlo con gli stessi toni. Questa è la vera e propria evoluzione, cantare degli stessi temi, in modo più maturo, con la visione di qualcuno che di anni non ne ha più venti ma più di quaranta (pur dimostrandone ancora venti, effettivamente). Ecco cos’ha permesso ai Green Day di essere ancora una volta sulle luci della ribalta, ecco cosa permette a Billie Joe, ancora una volta come negli anni ’90 e 2000, di essere vero e proprio messaggero di un’epoca.
L’album esordisce con le lente e sconsolate note di Somewhere Now, la canzone della disillusione, delle promesse non mantenute, di una vita incapace di essere all’altezza. All we want is money and guns – canta Billie Joe descrivendo in una frase il paradigma del tessuto sociale americano, una nuova catastrofe, quella in cui cerchiamo la nostra anima incastrata sotto il cuscino del divano, high on cellular waves, strafatti di onde radio da smartphone. Frontman che però non disdegna il mondo politico nella sua rivoluzione, ma rifiuta quello che gli è stato proposto; sintomatica in questo caso la sua stessa attività sui social spiccatamente critica verso Donald Trump (e a favore di uno tra i candidati più rivoluzionari che gli USA abbiano mai avuto, Bernie Sanders). A descrivere però una società di denaro e fucili ci pensa Bang Bang, seconda traccia nonché singolo di punta dell’album. Spinta dall’onomatopeica del suo titolo, rappresenta forse il dipinto più chiaro delle tristemente note “sparatorie americane”, lonely boy in cerca di fama e telecamere (shoot me up to entertain) in una tragedia-gioco perversa in cui il carnefice finisce per essere intrattenitore di un pubblico affamato anche di questo. Nella società dei reality e delle bugie, si finisce ben presto in quella che viene identificata come World War Zero. Frenetica e ritmata, Bang Bang è la traccia che cattura con le sue alternanze di voci e con la sua velocità. Cambi di tono azzeccati ed un refrain piuttosto catchy la rendono adattissima ad essere un singolo accattivante nel suo connubio di qualità musicale e messaggio. Arriva poi Revolution Radio, la title-track, lo slogan di una rivoluzione che nasce dalla protesta (come dichiarato dallo stesso Armstrong), mossa dall’amore indistruttibile (my love’s bulletproof) alla ricerca della verità, quella verità che ha necessità di essere “legalizzata”. Terzo singolo, da poco in rotazione nelle radio mondiali, è Still Breathing, traccia che va fortemente a braccetto con un concetto recente di punk-pop e vincente nel suo essere musicalmente perfetta ad adattarsi ai tempi che corrono. Orecchiabile ma allo stesso tempo carica di uno stile inconfondibile, è un pezzo al passo con i tempi, linea di confine di quella che è stata l’evoluzione artistica degli stessi Green Day.
Say Goodbye rimane forse la canzone più coinvolgente a livello musicale, vera anima punk-rock dell’album nel suo essere volutamente insistente e ripetitiva, perfettamente basata sul classico e collaudassimo schema Green Day. Dietro note veementi c’è però la necessità di dire addio a chi amiamo e quella di salutare obbedientemente chi ci comanda, chi ci controlla. Con la violenza in aumento, sofferenza e dolore, l’unica speranza che rimane è chiedere pietà a Dio. Tre tracce di transizione celebrano poi l’altrettanto pura indole punk-rock: Too Dumb To Die, Troubled Times e Bouncing Off the Wall. Fortemente autobiografica la prima, più legate alla quotidianità e alla modernità le altre due, risultano tutte tracce musicalmente coinvolgenti ma allo stesso tempo capaci di veicolare messaggi importanti. Troubled Times soprattutto sembra essere la terribile quanto attuale profezia di un mondo che non ha imparato dalla propria storia e rischia di ripetere i propri errori di una nuova alba di un giorno che arriva senza avvisare (a new day dawning/comes without warning), un giorno che sembra terribile tanto quanto i terribili eventi del passato.
Rimane Outlaws, nostalgia di tempi andati, tramonto di un criminal in bloom (Billie Joe stesso) e di un ex-delinquente che, quando era tale, era forever young insieme ai suoi compagni, coloro che hanno distrutto suburbia (e qui viene naturale il riferimento alla traccia di American Idiot, Jesus of Suburbia). Outlaws è una canzone struggente che racconta di un passato incapace di tornare ad essere presente, di una personalità sepolta e abbandonata lì su quei binari di un “treno che non ritorna”, quei binari della Christie Road (celebre ferrovia nei pressi di Martìnez in cui il frontman passava le sue giornate adolescenziali) che hanno portato via suicida uno dei più cari amici di Armstrong. C’è spazio per tutto, per compiangere e per ricordare, alla fine erano loro stessi a cantare We’ll always seem to find our way to Christie Road, dopotutto. C’è spazio infine per l’amore, quell’amore fondamentale nella vita di Billie Joe e degli altri membri della band (recente anniversario di matrimonio per Armstrong, lotta (vinta) contro un cancro al seno per la moglie del bassista Mike Dirnt e recente matrimonio per il batterista Tre Cool). A cantare di questo ci pensano Youngblood, fresca e semplice canzone dedicata ad Adrienne, moglie del frontman, the cedar in the trees of Minnesota, (ma con qualche traccia di altri ben noti amori giovanili) e Ordinary World, traccia scritta da Billie Joe per il suo primo film da protagonista (l’omonimo Ordinary World, appunto) e impostata sul sempreverde stile delle ballad che già la fortuna dei Green Day ha fatto con Good Riddance (Time of Your Life) nel 1997. La canzone stona con un un album dai ritmi ben più vivaci ma viene naturale pensare sia stato un qualcosa di assolutamente voluto, la cosa più punk che avremmo mai potuto fare, come giustificò Mike Dirnt l’inserimento di Good Riddance in un album dai toni completamente diversi (Nimrod).
Infine Forever Now, la Jesus of Suburbia di Revolution Radio. Quasi sette minuti di traccia raccontano il vero e proprio viaggio esistenziale di Billie Joe. Divisa in sezioni proprio come le canzoni più elaborate della band californiana (la stessa Jesus of Suburbia, Homecoming, American Eulogy – Mass Hysteria), ci regala una disquisizione sul mondo tanto amara quanto quella iniziale di Somewhere Now, in una sorta di grecheggiante ringkomposition che trova nello stesso messaggio di delusione e rassegnazione pre e post “rivoluzione” la sua essenza più vera, più profonda, più dannatamente reale.
Revolution Radio dà dunque la piacevole sensazione di essere un lavoro fortemente ragionato (al contrario della recente trilogia di ¡Uno! ¡Dos! e ¡Tré! ) nonché musicalmente e tecnicamente più curato e valido. L’alternanza del proprio classico stile ad esperimenti musicali di livello fornisce la possibilità ai Green Day di esprimersi al meglio, fondendo quest’ottima componente alle innate doti di storyteller di Billie Joe. Il frontman infatti, pur decidendo di non ricalcare il concept della rock/punk opera (tipico di American Idiot e 21st Century Breakdown), riesce ancora una volta a raccontare una storia appassionante con la sola forza della musica e delle parole. Non ci sono più protagonisti fittizi, Christian e Gloria in 21st Century Breakdown o Jimmy e Whatsername in American Idiot, perché i protagonisti di Revolution Radio siamo noi, persone di tutti i giorni alle prese con un mondo in frantumi. Siamo noi, ma sono anche loro, cantori del buio di una società malata tanto quanto quella dell’idiot America dei tempi di Bush, a dimostrazione che le cose cambiano, ma in realtà non cambiano mai.
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