La storia (vera) riferisce di un fanciullo che nel 1828 comparve all’improvviso in una piazza di Norimberga. Era Kaspar Hauser, il quale aveva passato gli ultimi dodici anni della sua vita in una cella buia, incatenato al pavimento e in totale isolamento. Divenne oggetto di studi e riuscì a raccontare la sua vita grazie all’aiuto di medici e insegnanti, ma a distanza di pochi anni dal suo ritrovamento fu ucciso da un uomo misterioso. Ancora oggi non si è certi se sia stato frutto di un esperimento, se sia sopravvissuto a spietati intrighi dinastici, se sia un impostore, un re, oppure un santo.
Causa blocchi cinematografici italiani (spiegazione volutamente inconsistente) che ostacolano il volo dei non (ancora) eletti, Davide Manuli ha dovuto combattere cinque anni prima di portare al cinema La (sua) leggenda di Kaspar Hauser. Il risultato è un’opera che seduce con le immagini e usa dialoghi irrazionali per raccontare una storia ai confini della realtà.
Il “Beket” che Manuli aveva diretto nel 2008 (premio della Critica Indipendente a Locarno) si svela oggi come il primo tempo di Kaspar Hauser. Un passaggio di testimone con cui il regista supera l’assurdità dell’esistenza e arriva all’incomunicabilità moderna.
Il film è una rilettura surreale, spirituale e minimalista di un archetipo. Non è il mito che interessa al regista, ma la relazione, in chiave poetica, tra Kaspar e la società, tra l’apparente matto e i così detti normali. Hauser arriva dal mare e Manuli lo inserisce in una dimensione atemporale e desertica, dove abitano personaggi enigmatici (il Drago, il Prete, la Veggente, la Duchessa). A prendersi cura di lui non sono medici, professori e uomini d’affari, ma uno sceriffo dipendente dall’eroina che gli insegna il mestiere di Dj. Hauser è un burattino nelle mani di una Duchessa che lo beffeggia, ma non c’è alcun laboratorio di studio, il ragazzo è libero, sotto la luce, nella musica, tra la sabbia e nel vento, incatenato solo momentaneamente alla terra. Il punto di vista del regista è quello di Rudolf Steiner e si legge dappertutto alla maniera di una metafora ermetica: forse fu una divinità, niente di più e niente di meno.
La narrazione appare come una sequenza di parti teatrali, nella quale i sottotitoli all’interno del film (ri)creano un’opera che inizia e finisce sullo stesso palcoscenico, con tanto di plauso (meritato) all’etoile. Manuli riscopre (come in Beket) una Sardegna in bianco e nero, regala paesaggi desolati e aridi che completano un delicato delirio artistico, gira tutto in ottiche larghe e in esterni straordinari. Affida al corpo di Silvia Calderoni il linguaggio di Kaspar e raccoglie il nucleo della storia in un acuto quanto sconfinato monologo di Giuseppe Genna, interpretato da un bravissimo Fabrizio Gifuni. Infine, sempre qui, dentro all’enigma e al mistero, inserisce un battito cardiaco, una seconda voce: la musica vibrante, energetica e travolgente firmata Vitalic, che assorbe tutto e affranca i buoni, fino al paradiso ..di chi (e per chi) ha un’anima elettronica.
<<Questa non è un’isola, qui non c’è dentro e non c’è fuori, e allora da dove arriva lo straniero? Kaspar Hauser è dappertutto!>>
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Ci5uorvkEGI]
Scheda film
Titolo: La leggenda di Kaspar Hauser
Regia: Davide Manuli
Cast: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Marco Lampis, Claudia Gerini
Genere: drammatico
Durata: 87’
Produzione: Blue Film e Shooting Hope Productions in collaborazione con Fourlab
Distribuzione: Mediaplex in collaborazione con Cineama
Nazione: Italia
Uscita: 13/06/2013.
Annamaria Scali.
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