
Il film è uno, si gira, si stampa e dopo non può mutare come succede oggi con il digitale. Dopo anni, qualcosa di telecinemato malamente possiamo oggi trovarlo su YouTube e anche sullo schermo di un televisore: si resta ipnotizzati dalla percussione costante del bianco e nero, dei suoi suoni e delle immagini perpetue e sintetiche, materiali che rappresentano una ortodossia anche della sperimentazione.

Peter Kubelka come appare nel film “Frammenti di Kubelka”, di Martina Kudlacek.
Ed io sono fermo e ascolto le sue parole, che non sono risposte a un interrogatorio, ma affermazioni di una vita di pensiero che si è trasformato in urgenza costruttiva, artigiana.
E ricordo il suo film, esteso, attaccato come un poster, un quadro al muro e lui in tutte le sue epoche che, davanti al suo film, apre le braccia e vorrebbe forse stamparsi e fondersi con ogni fotogramma bianco e nero, binario, ma scritto a mano e non affidato ad una nuvola, ad una macchina digitale.
Il mondo cambia come il tempo quando piove e c’è il sole. Conveniamo che bisogna accettarlo, ma è anche vero che, oggi più che mai, ognuno ha il suo cinema personale, non prodotto da una troupe, con dei soldi, e che il mondo digitale “caricato” su Instagram è ciò che Kubelka ha fatto tutta la vita, il cinema fatto da una sola persona. E a ragionarci, allora, perché tanto accanimento contro il digitale?
Nessun accanimento dico io, ma per la maggior parte nessuna ricerca, perché la disponibilità del mezzo di produzione non significa conoscenza del mezzo né avere un linguaggio, anzi, i filtri e le loop preconfezionate dalle piattaforme rendono tutto uguale, la stessa foto un milione di volte, lo stesso culo e le stesse labbra che non sappiamo più distinguere se siano di Maria o di Genoveffa.
Dice K: “Almeno io so, piaccia o non piaccia, che hanno guardardato qualcosa che non hanno mai visto altrove“.
Questa frase conferma il mio pensiero in divenire precedentemente scritto e che cercava una risposta, poi arrivata.
Sono contro qualunque forma di aristocrazia della cultura, figuriamoci del cinema, ma è un fatto che nulla, nella produzione visiva attuale. è una nuova proposta… Ancora nessun modello ha preso il posto di quelli precedenti, anzi, è proprio sugli “avanti e indietro” alla Vertov con cui le persone “giocano” con i loro piccoli video ripresi con lo smartphone.
Il problema è che non lo fanno loro, ma lo fanno fare da un individuo inesistente, altrove, che ci priva della nostra presenza umana.

“L’uomo con la macchina da presa”, un film documentario sperimentale del 1929 diretto da Dzhiga Vertov
Ma bisogna accettarlo come quando piove e c’è il sole.
La pellicola si lecca al buio per capirne il lato emulsionato, si taglia e si cuce come si fa con una ferita aperta, perché da una ferita aperta dovrebbe scorrere il sangue del cineasta indipendente.
La pellicola odora di vita nuova e di carogna quando brucia, il digitale è asettico, nulla con cui sporcarsi le mani, quelle mani che oggi nessuno si sporca più veramente, gli attori per primi, che restano lì, ad osservarsi, continuamente, che con il digitale vogliono immediatamente rivedersi, che vogliono rifare, che si occupano della luce, della color grading, che fanno domande. Che avessero provato con l’ultimo dei datori della luce trent’anni fa a chiedere come avesse intenzione di fotografarli. Sarebbero volati per le scale.
Gli attori sono elementi di scena, dice K. Come ogni altra cosa con cui si fa un film, dico io, peccato parlino troppo.
In questa grande casa dai soffitti altissimi, dai controluce che lo rendono silhouette come in suo film, con questi pochissimi elementi di arredo, K. mi conferma l’idea che, alla fine, ognuno di noi somiglia a quello che ha intorno o che il mondo, di volta in volta, in maniera misteriosa si adatta a noi, continuamente, in questa perenne illusione di 24 fotogrammi al secondo che, in pellicola 35 millimetri, coprono la distanza tra il gomito e le dita di un braccio di K, il quale quindi, a braccio, poteva misurare l’esistenza.
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