Un tuffo nel passato per il cinefilo appassionato del genere che, attraverso le immagini proiettate da Alberto De Martino in 7 Hyden Park-La casa maledetta, riprova la nostalgica inquietudine di un horror puramente italiano anni ’80.
Fotografia in technicolor di un’America dai colori sbiaditi, che dona a chi si appresta a fare la conoscenza di questa pellicola sentimenti confusi, traballanti tra la curiosità e il disagio. Lo spettatore “ moderno” a prima vista, forse, troverà le scene semplici e quasi troppo risolte, ma De Martino, come i grandi Maestri dell’horror storico nazionale, sa entrare dentro la memoria e restarci per molto tempo, una volta terminata la story. La Casa maledetta non è ad impatto immediato, ma l’impalpabile senso di sgomento e turbamento riecheggia in differita, come se l’intento preciso del regista fosse stato quello di far permanere nello spettatore uno stato di fobica ansietà, posteriormente alla visione della pellicola.
De Martino di fatto gioca con la semplicità e centra in pieno l’esecuzione: zero effetti speciali, inquadrature dirette e senza sotterfugi, ma che fanno di 7 Hyden Park un mystery dotato del potere di provocare echi intrusivi ed ossessivi. Macchina da presa dolly montata a braccio negli ambienti interni, vorticosi e stretti, che con i suoi movimenti verticali procedenti dal basso verso l’alto, si soffermano ai busti, realizzando l’effetto suspense e aumentando il senso di disagio ed oppressione nello spettatore, in contrasto ad esterni luminosi e pieni di agio e verde respiro. A dispetto di una trama data per certa, ma che di scontato non possiede proprio niente, giacchè i dialoghi producono un effetto incessantemente disturbante e di grande bellezza, sia per il sonoro a tratti stentoreo a tratti flebile del doppiaggio di quegli anni, sia per i volti a cui vengono prestate le voci. Altamente vibrante di biechi sentori sinistri, sono le musiche che accompagnano le scene, colonna sonora intrisa di angosciose attese, composta da Francesco De Masi, famoso per aver dato vita agli sfondi sonori di Fuga dal Bronx e Lo Squartatore di New York, che amalgama alla perfezione i turbamenti visivi con quelli uditivi.
Il regista circonda i suoi personaggi con inquadrature mai lontane, la mira è quella di imprimere sullo schermo e nella memoria di chi guarda ogni minima espressione facciale degli interpreti, costringendo ad una partecipazione quasi simbiotica chi si trova al di là dello screen. La sofferenza che solca il viso dell’inferma Joanna, interpretata da un’eterea Christina Nagy e la famelica malvagità sessuale di David Warbech come Craig, donano vigore alla pellicola, in un connubio di innocenza e morbosità, fede e peccato, sesso sangue e paralisi intesa come malattia: illuminante tema per De Martino già portato nel suo Anticristo del 1974 , come anche in 7 Hyden Park.
Dunque non un horror pieno di effetti scenici, eclatanti o pirotecnici, ma una di quelle opere che fa ripresentare deja-vu e ricordi insistenti, rimanendo scolpita nello spettatore per un tempo indefinito, provocando la curiosità verso un altro assaggio di cine-orrore anni ’80, dall’aspetto ingannevole e seducente.
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