All’interno della collezione di un appassionato cinefilo ed estimatore del genere horror, non può e non dovrebbe mancare uno dei più magnetici capolavori storici della filmografia italiana e non. I Tre volti della Paura, capolavoro classe 1963, firmato da Mario Bava e con lasceneggiatura di Alberto Bevilacqua, incrocia le sue visionarie idee con gli scritti tratti dalle importanti penne di Maupassant, Tolstoj e Checkov, dando forma ad una trasposizione filmica dal sapore tensivo e seducente.
Il carattere distintivo della pellicola prende la sua piega grazie all’andamento morbido, in cui la cinepresa del Maestro Bava, collega con sapienza creativa gli avvenimenti di tre tracce narrative distinte tra loro, ciascuna con la propria trama ma che si va ad unire con la successiva, creando l’effetto di un ricordo atavico sulla precedente.
Si parte in sordina con il primo atto filmico, Il Telefono, il quale abitua sin dall’inizio lo spettatore a fare conoscenza con lo stile recitativo quasi teatrale della sensualissima Michèle Mercier nei panni di una smarrita Rosy, parte dell’inquietante e perfetto triangolo, chiuso da Lydia Alfonsi, la diabolica e rancorosa Mary e dal tenebroso Milo Quesada in Frank.
Bava riempie lo schermo rimandando all’occhio dello spettatore riprese caratterizzanti che si concentrano compulsivamente sugli ovali facciali, per imprimere il ricordo espressivo ed emotivo degli interpreti e forse anche per creare una sorta di rebus machiavellico che richiamasse al titolo della pellicola. Anche gli astuti scatti regalati dall’obiettivo artistico e drammaticamente espressivi di Ubaldo Terzano fanno la loro parte negli umori del pubblico, immortalando ipnotiche e pittoresche ambientazioni interne animate da sete purpuree, che si alternano a contrastanti lampi di luce notturni verdeggianti e asettici, giusto a voler rimarcare il calore della vita contro le fredde cromaticità della morte.
La notte chiude il sipario sul primo atto filmico, riaprendosi sempre nell’oscurità con la seconda manche visiva, I Wurdalak, dove Bava rimette al centro della scena una figura rivisitata in chiave rocambolesca se vogliamo, della figura draculea, icona del cine horror. Durante il susseguirsi delle sequenze nella visione in questa seconda fase narrativa, il grado di fobia e inquietudine salgono su un gradino più alto, rispetto alla prima, infatti si ravvisano, a mano a mano, elementi visivi meno tranquillizzanti, ma sempre sulla stessa onda sensoriale del primo tratto filmico.
Qui, come in tutta la pellicola, la colonna sonora di Roberto Nicolosi, sostiene il passo del pubblico facendo da guida virgiliana, accompagnando il suo cammino visivo con acri e piene note, che si sposano perfettamente alla mimica volutamente incerta dei protagonisti presenti, così come alla cinepresa agrodolce del regista. Le scenografie giocano il ruolo dell’incertezza sull’occhio osservante, apparendo ora più spoglie e spartane, essendo un’ambientazione a stampo medievale, dove la familiare e artificiale luce dal color dell’assenzio, va a stridere fortemente, scontrandosi con fragili fiammelle, che colorano, rigide e glaciali muri di pietra e che catturano oltre alle pareti domestiche in una spirale mortifera, sia gli interpreti che chi assiste alla proiezione; senso di morte dato anche dalle timbriche vocali dei recitanti, che si intervallano tra loro con dialoghi a carattere quasi monotonico, perfino quando divengono picchi di urla disperate; le inflessioni nel tono che destano più impressione, per la loro dolcezza mescolata a tonalità incolori, provengono dalle figure protagoniste, la disarmante Maria, che prende vita grazie alla sua delicata interprete Rika Dialina e Susy Andersen la dolce Sdenka, che aumentano la percezione di pericolo ed instabilità in chi guarda, sensazione amplificata anche dal pallore dell’incarnato esangue che lo mette in congiunzione con la livida carne vampiresca, riflessa nella luce lunare.
Ma e’nel terzo atto, La goccia d’acqua, che Mario Bava esplode nello spannung: la porta tensiva qui si spalanca platealmente, mostrando immagini non più con la stessa discrezione e lasciate fino a questo momento in mano all’immaginazione dell’auditore. La macchina del regista, senza esitazioni, libera l’orrore angoscioso della e per la morte presentata con fascino raccapricciante e magnetico. Cinepresa complice che, se in precedenza andava quasi a celare gli eventi con estreme inquadrature ravvicinate, concentrate maggiormente sui protagonisti, ma che ancora comunicavano se non una certa calma almeno una sensazione di controllo sulle situazioni in atto, adesso la macchina da presa viene portata a spasso, mostrando angoli di ripresa che sgorgano in estremo sgomento, aumentando il tono suspence ed esplodendo in ritratti disagevoli.
L’ambientazione utilizzata in questo terzo ed ultimo atto è maestosa, intrisa da ricordi polverosi come gli interni,tappezzati da colori superbi e brillanti; anche qui come nel fattore luce descritto all’inizio, il regista gioca sul contrasto duale vita- morte, mettendo in relazione la vecchiaia con la giovinezza (polvere- lucentezza), quasi a far percepire all’olfatto odori mortiferi, solleticando la mente con frammenti di reminescenze sepolte e innescando con il potere dato dalle immagini, sensazioni al limite della claustrofobia, nonostante l’ampiezza degli ambienti, coinvolti nelle scene. I dialoghi dei personaggi imposti da Bava con le sue relative tinte timbriche, al contrario dei primi due racconti, nei quali risultavano per così dire appiattiti, ora con Milly Monti nelle vesti della venale cameriera e le sue urla di disperata impotenza, divampa tutta l’energia della pellicola, tenuta imprigionata fino a questo momento, che porta a totale compimento il magistrale lavoro di Mario Bava. Oltre che attrice, Milly, pseudonimo di Carolina Francesca Giuseppina Mignone (attiva dal 1932 fino al 1970) che interpretò il ruolo di Doria Dazzi in Tempo Massimo di Mario Mattòli (1934) con un giovane Vittorio De Sica, è stata una cantante di successo, conosciuta oltreoceano come Mili Monti e forse questo ci dà spiegazione sulle sue doti vocali.
I Tre Volti della Paura è un’opera dai mille volti dell’horror, che come nelle più grandi e riuscite opere melodiche, (musica per le orecchie e gli occhi soprattutto, del cinefilo), è un crescendo di tensione sapientemente resa graduale, dove il regista abitua il pubblico agli sbalzi emotivi della pellicola, regalando con pochi effetti speciali (viva la semplicità che dichiara reale bravura), all’appassionato spettatore, un’opera impeccabile e superba, gioiello della settima arte italiana.
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