Se è vero, come dice Gilles Deleuze nel primo dei suoi due libri sul Cinema (Cinema1: l’Image-mouvement, Paris 1983) che il Cinema fa parte della storia dell’arte e del pensiero, sotto le forme autonome e insostituibili che i grandi autori hanno saputo inventare ed imporre, nonostante, si potrebbe dire, le esigenze dell’industria cinematografica e il potere dei produttori che può ostacolare e in alcuni casi impedire l’opera con esigenze artistiche (il caso di Von Stroheim da questo punto di vista è paradigmatico), allora il rapporto tra Cinema e letteratura (ma anche tra Cinema e mondo dell’arte e del pensiero in generale) assume una particolare importanza.

Ossessione di Luchino Visconti
Non deve stupire che alcuni film che hanno segnato la storia del Cinema si siano ispirati a testi letterari. Quello che è considerato il primo film neorealista in assoluto, Ossessione di Luchino Visconti (1943), è la trasposizione (una delle tante in realtà) del romanzo di James Caine il postino suona sempre due volte. E Blade Runner, Shining, La finestra sul cortile, Il padrino, Qualcuno volò sul nido del cuculo, fino a La Sirenetta, tratto dalle fiabe di Andersen, sono solo alcuni esempi di questo rapporto costante tra Cinema e Letteratura, Cinema e testo scritto. Qui peraltro non c’è differenza tra cinema come intrattenimento e Cinema d’autore, perché da Assassinio sull’Orient Express alla saga di Harry Potter, da Cinquanta sfumature di grigio a Uomini che odiano le donne a Killer of the flower moon, ormai la tecnica della trasposizione cinematografica di un romanzo di successo è stata pienamente acquisita dall’industria cinematografica. E lo stesso potrebbe dirsi delle serie televisive, sempre più spesso costruite con la collaborazione di scrittori più o meno noti, da De Cataldo a Maurizio De Giovanni, da Camilleri a Elena Ferrante o Roberto Saviano.

Ossessione
Naturalmente non bisogna pensare che il trionfo della serialità, un fenomeno chiaramente imposto dall’industria dell’audiovisivo, abbia avuto origine in questi anni, né che implichi necessariamente una scomparsa dei valori artistici e un completo assorbimento della cultura nell’industria. E’ vero, oggi uno scrittore con un minimo di ambizioni sa che i suoi testi sono destinati, se avranno successo, a diventare film, o meglio ancora serie televisive, e scrive già in quell’ottica, adattando le sue tecniche al futuro utilizzo dei propri testi. Ma è altrettanto vero che i grandi romanzieri dell’800 dovevano molto della loro creatività e prolificità al pungolo dell’allora nascente industria culturale, che esigeva la pubblicazione a puntate delle loro storie per un pubblico il più vario possibile (grandi romanzi come Madame Bovary di Flaubert, o delitto e castigo di Dostoevskij sono nati in questo modo, erano in gergo tecnico dei feuilleton).
Ma per venire a un periodo più vicino a noi, è interessante seguire l’evoluzione della cultura underground degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, in particolare nel suo rapporto con il Cinema. Questo perché rappresenta, secondo noi, anche un punto di crisi (e di svolta) molto importante del rapporto tra Cinema e Letteratura. Apparentemente il Cinema c’entra poco con l’underground, che non designa certo una corrente letteraria o artistica ben definita ma un’insieme di sperimentazioni artistiche tra le più varie, che ha prodotto risultati apprezzabili forse soprattutto in campo musicale. Ciò che accomuna queste esperienze è forse un atteggiamento mentale: l’underground, ovvero l’arte che sceglie consapevolmente di andare in clandestinità, si può considerare una forma di elitarismo culturale, nata come reazione al potere oppressivo dei mass-media, che pian piano, quasi impercettibilmente, si trasforma in rivolta anarchico-individualista contro un potere oscuro, non ben definito. La sperimentazione è nella sua natura, così come il disprezzo per le istituzioni culturali e per i circuiti ufficiali di diffusione della cultura (mass-media). In una visione ancora più ampia, l’underground è l’erede della grande tradizione filosofica nichilistica che nasce nell’800, e che ha come rappresentanti principali Nietzsche e Dostoevskij.

Madam Bovary di Claude Chabrol
L’uomo underground è in fondo l’uomo del sottosuolo dostoevskiano (con riferimento al romanzo Memorie dal sottosuolo, 1864), disilluso e già completamente privo di valori, schiacciato da un sistema sociale oppressivo che semplicemente nega il valore dell’individuo, intrappolato, dal punto di vista esistenziale, in un circuito bipolare che lo porta spesso ad esaltarsi per la sua sfacciata convinzione di non essere come tutti gli altri, ma anche a deprimersi, per un sentimento di bassezza morale e d’impotenza che gli impediscono di trasformare la propria vita (in altri romanzi l’uomo di Dostoevskij ricorre a forme violente di rivolta, dall’omicidio alla cospirazione, sempre però impotenti sul piano sociale).

Madam Bovary
L’uomo underground è l’uomo che vive in un autoisolamento aristocratico, che rifiuta il confronto con la realtà e i suoi simili, un po’ alla maniera del filosofo Nietzsche, il quale, negli ultimi anni della sua vita, prima di cadere nel baratro della follia, visse da intellettuale nomade sempre più isolato e sempre più maniacalmente convinto della sua superiorità in confronto agli uomini del suo tempo; è l’uomo che decide programmaticamente di coltivare il suo io e la sua spiritualità facendo ricorso a tutti i mezzi possibili, compreso le droghe, per ottenere il massimo dalle sue potenzialità e modificare il proprio stato di coscienza; è l’uomo che effettua esperimenti su sé stesso e non si ferma davanti a niente; che non avendo ormai più valori è mosso solo da una lucida disperazione; che non condanna il male, la violenza, la discesa verso forme di vita sempre più infime e degradate, se questo serve ad accrescere la propria consapevolezza; è anche l’uomo del cinismo più estremo e della più grande delicatezza, che acquisisce, come Henry Chinasky (l’alter ego di Charles Bukowsky) una sua pragmatica saggezza dalla conoscenza diretta dei bassifondi; è infine anche l’uomo paranoicamente convinto dell’esistenza di un complotto mondiale e di un potere occulto che regola il suo destino come quello di tutti, al quale egli si oppone ordendo a sua volta, nella più grande oscurità e nel segreto, un complotto per far saltare in aria il sistema, che nei suoi desideri dovrebbe gettare il mondo in un caos creativo e rigenerativo.

Fight Club di David Fincher
In questa ultima forma riconosciamo Tyler Durden, il protagonista del romanzo di Chuck Palaniuk Fight Club, e del film omonimo di David Fincher (1999) interpretato dalla coppia Edward Norton–Brad Pitt. L’allievo di George Lucas (il mago degli effetti speciali) e uno dei registi più influenti degli ultimi anni del ‘900, è indiscutibilmente riuscito nell’impresa di trasporre cinematograficamente in maniera piuttosto fedele il testo di Palaniuk, e trarne fuori un film di culto ricorrendo al puro spettacolo. Non parliamo di un vero e proprio romanzo (perlomeno non nel senso tradizionale del termine), la scrittura di Palaniuk è in realtà, abbastanza fedelmente, un lungo delirio, che corre lungo il filo della crisi esistenziale di uno di quegli uomini del sottosuolo che popolano le nostre metropoli; quasi necessariamente il delirio sfocia in una scissione della personalità, ovvero in quella che in psichiatria si chiama Sindrome Schizofrenica.
Curioso che un regista di grande successo, un regista che porta a compimento quell’idea di Cinema che empatizza con lo spettacolo, facendone una categoria d’ interpretazione della realtà, sia riuscito a focalizzare l’attenzione sull’uomo underground, l’uomo controsistema per eccellenza, ed a farci perfino empatizzare con lui, a farci vivere l’ombra del complotto mondiale e a farci sentire il soffio diabolico del controcomplotto, che può nel più assoluto silenzio far saltare in aria il sistema stesso (non solo metaforicamente, a prendere sul serio la scena finale). E’ veramente la rivolta nichilistica dell’uomo underground, rappresentata al cinema da Fincher, un’idea trasgressiva e potenzialmente rivoluzionaria?

John Cassavetes
Portare alla luce questa specie di cancro, che divora dal di dentro la nostra società, far rivivere sul grande schermo lo spettro del nichilismo, di cui peraltro molto si è discusso per tutti gli anni ’90 e seguenti (parliamo di filosofi e psicoanalisti appartenenti anch’essi, in una maniera o nell’altra, al circuito mediatico, da Severino a Galimberti, fino a Recalcati) è sicuramente un’operazione che ha avuto un effetto terapeutico (o catartico), ma non certo un effetto rivoluzionario. Forse il vero risultato del film di Fincher è stato quello di creare un cliché davvero molto potente, capace di disinnescare la carica anarchica e rivoluzionaria dei personaggi di Palaniuk. Nulla di nuovo in realtà. Già Deleuze (op.cit., in particolare cap.12 dell’edizione italiana, La crisi dell’immagine azione) a proposito del cinema americano del dopoguerra – un cinema che registra la crisi dell’immagine-azione e che ha una funzione molto importante per, da una parte, rinnovare le tecniche cinematografiche servendosi anche delle innovazioni in campo letterario (Deleuze cita Dos Passos), dall’altra prendere coscienza della crisi della società che in qualche modo coincide con la crisi del cosiddetto “sogno americano”, un cinema come quello di Altman o di Cassavetes, di Sidney Lumet, fino ad arrivare allo Scorsese di Taxi Driver; un cinema che mette in scena una realtà sconnessa e disarticolata, che disfa lo spazio, l’intreccio, la storia e perfino l’azione – parla di funzione critica, e di una generale presa di coscienza dei cliché che dominano la vita dell’uomo alienato della metropoli (Taxi Driver in quest’ottica non è altro che un catalogo di tutti i cliché psichici presenti nella testa di un autista di taxi). Parla anche della denuncia del complotto come una delle caratteristiche principali di questo cinema. Il complotto del potere che ci costringe a vivere di cliché. Un potere che però non ha un volto ben definito e finisce per confondersi con i suoi stessi effetti (come in Quarto potere gli effetti della propaganda mediatica sono il potere).

Taxi Driver di Martin Scorsese
Crisi periodiche che si ripetono, forse, nel Cinema come nella realtà. Il Cinema ne viene fuori, secondo Deleuze, con l’invenzione di un nuovo tipo d’immagine (a partire dal neorealismo italiano). Ma la questione politica resta aperta. E’ qui che si misura l’importanza del Cinema e del suo rapporto con la letteratura, l’arte e il pensiero in generale, e del rapporto del Cinema con noi stessi e con la nostra vita. Oltre la coscienza critica dei cliché inventati dall’industria culturale, di cui noi siamo anche inconsapevolmente consumatori e per certi versi vittime, oltre il grado di potenza che l’industria culturale ha raggiunto fino ad inventare il cliché dell’uomo del sottosuolo e della sua rivolta nichilistica, dell’uomo che si ostina a combattere quello che in maniera vagamente paranoica certi intellettuali definiscono ancora il “sistema”; oltre anche il cliché della follia come stato della mente potenzialmente rivoluzionario, c’è ancora la nostra insoddisfazione, la nostra rabbia forse, il nostro desiderio di andare in clandestinità e di vivere nel sottosuolo, se non siamo capaci di trasformare veramente il mondo.

Salò o Le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
Fincher ci mette davanti alla dura realtà che dal sistema non si esce se non paranoicamente (gli eredi del Fight Club sono i complottisti odierni che popolano il web e il dark-web). Ci suggerisce che forse, oggi, è tutta la realtà ad essere diventata la proiezione di una mente malata, e che il potere, l’unico potere che riusciamo a riconoscere, è quanto di più folle possa esistere, perché non ha più nessun rapporto con noi e noi non abbiamo più nessun rapporto con il potere (è la formula della follia: l’assenza di rapporto con la realtà; Pasolini ha rappresentato molto bene questa condizione del potere, che lui definisce “anarchica”, nel suo Salò). La nostra presa di coscienza deve farci comprendere che il rapporto tra Cinema e letteratura è ormai diventato troppo stretto per poter essere vitale, perché appiattisce l’uno e l’altro sull’esigenza dello spettacolo. E’ lo spettacolo oggi la categoria che più di ogni altra forse impregna la nostra vita, e Deleuze aveva ragione che gli autori di Cinema sono anche a modo loro dei pensatori, perché ce lo hanno mostrato.
La nostra esigenza è ancora quella d’ inventare nuove forme di rapporto tra Cinema e scrittura, tra arte e Cinema, tra Cinema e spettacolo, tra arte e vita.
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