A chi gli chiedeva di un suo film ancora in preparazione, Federico Fellini immancabilmente rispondeva: quando non ci saranno più soldi il film sarà finito, enunciando così la dura legge del Cinema, il suo rapporto costitutivo con il denaro.
Fellini faceva di necessità virtù, perché la pacifica accettazione di questa legge non gl’impediva di lavorare come lui voleva, anzi era uno stimolo alla sua creatività e alla voglia di sperimentare (diceva anche sono i soldi che fanno venire le idee). Ma la storia del Cinema è piena di film mai realizzati, capolavori mancati (forse), e di talenti bruciati o sacrificati alle leggi del “mercato”.
Fitzgerald provò a scrivere una sceneggiatura per il cinema, dal titolo infidelity, mai diventata film, forse perché trattava dell’infedeltà coniugale nell’America degli anni’40. Il regista statunitense Tod Browning, autore di film molto particolari, soprattutto nel genere horror (è lui che ha inventato la figura cinematografica di Dracula nel film del 1931 interpretato da Bela Lugosi), conobbe un inglorioso declino, tanto che dovette ritirarsi, ancora giovane, in esilio dorato nella sua villa di Malibù. Il motivo fu forse l’insuccesso di quello che è considerato il suo capolavoro, Freaks (1932), stupenda riflessione sulla diversità: i fenomeni da baraccone (così si può tradurre la parola Freaks) che popolano il mondo del circo (dal quale Browning proveniva), adatti agli spettacoli di più bassa lega, si rivelano forse più umani e più capaci di amare degli individui cosiddetti “normali”. La critica ha poi acclamato Tod Browning come uno dei grandi innovatori del Cinema, rimpiangendo i capolavori che avrebbe ancora potuto girare.

Freaks di Tod Browing
Si possono fare molti esempi di film mai realizzati perché non avevano un pubblico, film di grandi registi, come Stanley Kubrik e il suo Napoleon, o Luchino Visconti, che non realizzò mai il suo progetto di portare sullo schermo l’opera di Marcel Proust, scrittore verso il quale sentiva una forte affinità spirituale (ambedue avevano rappresentato dall’interno la dissoluzione della classe aristocratica). Il mondo del Cinema non ha solo registrato questa impasse, ma ne ha dato anche una elaborazione cinematografica. Film che trattano la crisi del Cinema sono in genere film nel film, cioè film che raccontano, un po’ come in uno specchio, la realizzazione di un film, di solito travagliata o impossibile. Come ne Lo stato delle cose di Wim Wenders (1982), che vinse anche il Leone d’oro a Venezia.
Realizzato a Hollywood, il film è ambientato in un albergo semidistrutto e spettrale sulle rive dell’atlantico (Portogallo), dove è stato allestito in tutta fretta un set cinematografico, e dove un regista e la sua troupe sono riuniti per girare un film. Quando la lavorazione deve essere sospesa per mancanza di fondi, il regista parte per Los Angeles alla ricerca del produttore. Qui viene a conoscenza di un complotto: ci sono dei misteriosi killer che vogliono uccidere il produttore, il quale gira in camper per non farsi trovare. In principio non vuole crederci, ma scoprirà a sue spese che i killer esistono davvero, e sarà lui a finire ucciso. Sappiamo che Wenders credeva davvero a una crisi mortale del Cinema, e ad una specie di complotto internazionale del mondo della Finanza. Dal suo punto di vista, il Cinema non aveva scampo, la sua crisi poteva soltanto essere denunciata.

Lo stato delle cose di Wim Wenders
All’opposto di quest’idea, quasi apocalittica, di un Cinema che morirebbe per un suo difetto di costituzione, cioè per il fatto di essere Arte che si fa industria, c’è la personalissima rappresentazione che Bukowski ci ha dato di questa crisi vista dall’interno nel suo romanzo Hollywood (1989, traduzione italiana pubblicata da Feltrinelli nel 1990 con il titolo Hollywood, Hollywood!). Anche qui si tratta di un’opera allo specchio. Il romanzo tratta la storia “vera” (conoscendo Bukowski non c’è da dubitarne) della travagliatissima realizzazione del film Barfly, moscone da bar (1987), tratto da una sua sceneggiatura. Il film aveva interpreti d’eccezione, protagonisti Mickey Rourke e Faye Dunaway, nel ruolo di due ubriaconi che si conoscono e s’innamorano in un bar di Los Angeles, dove un Bukowski-Rourke molto giovane è solito fare a cazzotti col barista Eddy (interpretato da Frank Stallone, fratello più giovane di Silvester) dopo essersi regolarmente ubriacato. Come suo stile, Bukowski non inventa nulla, né la sceneggiatura, fedele rievocazione dei suoi esordi da ubriacone e da aspirante scrittore, né il racconto del come questo film, che bisogna dirlo, non è indimenticabile, abbia visto la luce, secondo una sequenza di casualità e di vicende a dir poco bizzarre, tutte ruotanti intorno ai soldi. I soldi per produrre il film, che prima ci sono, poi spariscono e del film sembra non se ne faccia più niente, poi di nuovo ricompaiono o vengono trovati. Il romanzo ha davvero un andamento cinematografico, ottenuto per di più con i mezzi più poveri, più austeri, che uno scrittore possa utilizzare, e cioè i dialoghi.

Barfly, moscone da bar
Famosa la “sequenza” in cui Jon Pinchot, il regista del film, (nella vita reale Barbet Schroeder, regista e produttore cinematografico di origine francese, vicino alla nouvelle vague) costringe il produttore, che vuole tirarsi indietro nella realizzazione del film, a firmargli una liberatoria minacciandolo con un Black Decker già inserito nella presa. Sta per tagliarsi il dito mignolo (tanto per cominciare) proprio davanti a lui, e poi, se non basta, minaccia di tagliarlo al suo terrorizzato interlocutore! Bukowski è dissacrante, ci mostra una Hollywood che non ha nulla del mito entrato a far parte del nostro immaginario, e descrive tutti i personaggi che la popolano nella maniera più realistica possibile. Attori e attrici vanitosi (Jack Bledsoe, alias Mickey Rourke, il protagonista, che pretende la rolls Royce per andare sul set, e Francine Bowers, alias Faye Dunaway, che non perde occasione per farsi fotografare in pose provocanti con abiti un po’ Kitsch e le gambe ben in mostra). Produttori-affaristi cinici e ignoranti che non si fanno scrupolo ad utilizzare metodi da gangster. Famosi registi ridotti oramai alla parodia di sé stessi (Jon-Luc Modard, alias Jean Luc Godard: “dava l’impressione di posare, di fare il genio, era piccolo, scuro, con l’aria di uno che si era fatto la barba male con un rasoio da quattro soldi”). Star del cinema e della canzone, come Madonna, Isabella Rossellini, David Linch, Dennis Hopper, che partecipano a riunioni e party un po’ alla rinfusa; e perfino un Tom Jones (nel romanzo Tab Jones) che raggiunge vette di volgarità esibendosi per le sue fans in una festa privata (si palpa l’uccello e queste vanno in delirio). E poi Sean Penn, Werner Herzog, il grande scrittore americano Norman Mailer, l’unico che Bukowski mostra di stimare… tutti personaggi atipici, bizzarri, che inducono ribrezzo e antipatia più che rispetto. Il cosiddetto circo mediatico, visto dall’interno, filtrato da uno sguardo d’eccezione, ci appare come un ambiente marcio, regolato da leggi che sono l’arrivismo, l’attaccamento al denaro e al successo, la sopraffazione.
Eppure Bukowski non denuncia, non fa del moralismo, lui che proviene dalla strada, dal mondo underground. Osserva tutto e registra in maniera distaccata e ironica; anche sé stesso, finito chissà come in quell’ambiente. Per tutto il romanzo non smette di lamentarsi del fatto che una star viziata prenda almeno cento volte il suo compenso di autore; rapidamente si adegua alla necessità di apparire e col suo primo compenso si compra una Bmw, nera, (è una macchina da duri, commenta in una conversazione con Norman Mailer); alla prima del suo film si fa venire a prendere, insieme a sua moglie, da una Limousine con l’autista offerta dalla produzione; insomma, alla fine ci fa capire di non essere poi molto diverso dagli altri, almeno in quell’ambiente. Non giudica nessuno, il suo sguardo è disincantato. Non sa come, ma alla fine c’è l’ha fatta anche lui. Un po’ per caso forse. Perché Bukowski non ci crede veramente, questa è la sua forza, non prende sul serio niente, neanche sé stesso, non ha valori, tranne forse l’amicizia, e si muove in quell’ambiente spinto soltanto dalla curiosità e da simpatie e antipatie piuttosto aleatorie. Se il mondo del Cinema ruota intorno ai soldi e all’apparire, perché stupirsi? Lui non farà un’altra sceneggiatura, preferisce andare alle corse dei cavalli. Ha fatto un film e gli è bastato.
Il mondo dorato di Hollywood, uno spaccato in cui i vizi e i difetti dell’umanità si amplificano, non fa per lui. Ma in nessun momento si sente vittima di un complotto. E nemmeno il Cinema lo è, è solo vittima dei suoi vizi, che in fondo non sono troppo diversi dai vizi di tutta l’umanità. La sua è una visione riconciliata, che tiene a distinguersi da quella dei cosiddetti geni del Cinema, i Godard, i Wenders, non a caso rappresentati parodisticamente nel romanzo (il famoso film-maker tedesco Wenner Zerzog, alias Werner Herzog, era un po’ matto, al di là di ogni possibilità di aiuto, come si dice, sempre pronto a mettere in gioco la sua vita e quella degli altri).
Questi maledicono il denaro in fondo solo a parole, e credono paranoicamente che il Cinema sia vittima di chissà quale complotto. Grazie a Bukowski possiamo intendere il rapporto tra Cinema e denaro come un qualcosa che è, molto semplicemente, nell’ordine delle cose. E forse provare ad andare più a fondo. Se è vero che nella società in cui viviamo il tempo è denaro, come recita il famoso adagio, e se il Cinema ha molto a che fare con il denaro, allora avrà anche molto a che fare con il tempo. E’ il mistero racchiuso nel tempo, il suo enigma, che il Cinema cerca adesso di afferrare, racchiudendolo con i mezzi suoi propri in immagini immortali. (Continua)

Charles Bukowski
Lascia un commento