L’ultimo viaggio di Sindbad di Silvia Colasanti, per l’Opera di Roma
Scrivere un’opera lirica contemporanea è possibile

Silvia Colasanti. Foto di Fabrizio Sansoni
Sembrerebbe che comporre un’opera lirica oggi sia possibile. Recente dimostrazione è L’ultimo viaggio di Sindbad di Silvia Colasanti, andato in scena per l’Opera di Roma con Romaeuropa Festival al Teatro Nazionale. Intendo dire che è possibile realizzare un racconto musicale in 7 quadri tratto dall’attualità e profondamente significativo sul piano intimo. Qui c’è con uno strato sonoro che attiva il DNA musicale di cui siamo fatti cacciando intellettualismi da accapponare la pelle. C’è una vocalità che mischia cautamente l’impostazione lirica, il parlato, il canto naturale. Uno spettacolo anche bello da vedere.
La storia di questo Sindbad è un mix di viaggio e migrazione, con tutte le implicazioni dell’Ulisse dentro di noi. Il libretto di Fabrizio Senisi, da Erri De Luca, attinge al mito del marinaio delle favole da Le Mille e una Notte ma parla di quelle navi sciagurate o portatrici di speranza nel Mediterraneo, quelle che affondano o approdano lasciando molti interrogativi.
Attesa, paura, amore, morte. E in tutto questo c’è il mare. Storie varie si succedono nella relazione con Sindbad. Una ragazza con la sorella cieca, un poetico uomo del mare, una madre che ha perso il figlio appena nato, personaggi che cantano con oud o altri strumenti esotici, il disertore da sacrificare al mare. C’è molto soffrire e l’empatia si attiva per chiunque non abbia un cuore di pietra.
Tutto questo reso musicalmente da una forte sintonia tra coro, orchestra e voci. Un’opera nuova va tanto ascoltata e certamente studiata (qualche nota in più sul programma di sala sarebbe gradita per un debutto). Per questo primo ascolto, ho particolarmente apprezzato i quadri 4 e 7. Il primo per il miscuglio vocale di Roberto Frontali (Sindbad) e Vincenzo Capezzuto (uomo del mare), un impasto che sintetizza tutte le pratiche del canto e regala una timbrica piena di grazia. L’altro per l’invocazione della “Terra”, con coralità drammatica, armonie senza tempo, dissonanze felici. L’orchestra guidata dal sempre più sorprendente Enrico Saverio Pagano ha proprio ricamato con soli o ensemble, fino all’apoteosi finale. Bravi.
E poi la scenografia di Leila Fteita, perfetta ad assecondare l’immaginazione teatrale del regista Luca Micheletti. Una nave con sottocoperta e ponte. Due piani in cui botole o pannelli si aprono e chiudono, piani inclinati si animano con luci di scure palette cromatiche, azzeccatissime, con il mare che sembra sovrastare. Le masse di adulti e bambini si muovono ovunque (sul finale arrivano pure in platea) e i solisti occupano angoli drammaticamente potenti. Micheletti è uno e trino. Baritono, regista, attore. Questo triscele di creatività fa tutto ottimamente (pure famiglia tiene: ma quante ora ha a disposizione?) e dobbiamo augurarci di vederlo all’opera, in senso lato, molto di più.
Non c’è la pornografia della cronaca in quest’opera, ma il toccare corde profonde e private, ognuno come gli va, ognuno come sa e può. Bisogna continuare a commissionare opere nuove per parlare al pubblico contemporaneo, come ha fatto l’Opera di Roma.
Le nuove composizioni esistono solo se possono essere rappresentate e si compongono anche nel confronto fra artisti che collaborano e fanno crescere l’organismo creativo. Continuiamo così.
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