Il mondo è tuo, the world is yours, è lo sfavillante slogan pubblicitario che gira su Miami trasportato da un dirigibile nel film Scarface (1983). Remake di Scarface lo sfregiato (Howard Hawks, 1932), a sua volta tratto da un romanzo di Armitage Trail degli anni ’20 (la biografia di Al Capone), il film di Brian De Palma, ambientato nella Miami degli anni ’80 e pieno zeppo di suggestioni cinematografiche, ormai da un pezzo è entrato a far parte dell’immaginario collettivo. Al punto che qualche tempo fa un famoso boss della Camorra (Walter Schiavone, fratello del più famoso Francesco, detto Sandokan) si era fatto costruire, in provincia di Caserta, una villa in puro stile Scarface, oggi centro di riabilitazione per ragazzi con disagi mentali.
Di questo film si è detto tutto: la splendida interpretazione di Al Pacino, che rende magnificamente la psicologia del protagonista; lo stile registico di De Palma, caricato al punto giusto, quasi barocco, in modo da rendere visibile e quasi percettibile la volgarità dell’ambiente criminale e il cattivo gusto dei personaggi che lo popolano (la villa con l’enorme piscina, al centro della quale troneggia la statua su cui Tony Montana ha fatto incidere lo slogan pubblicitario che adotta come suo motto, the world is yours, è un capolavoro di kitsch); la spettacolarizzazione della violenza, rappresentata con tinte forti, a volte con compiacimento, che ai tempi parve eccessiva, ma che noi oggi possiamo considerare quasi profetica e anticipatrice. Se si può aggiungere qualcosa è che, forse, il vero protagonista del film, un protagonista neanche tanto occulto visto che compare in tutti i momenti importanti del film, è il Denaro. Al Denaro allude (oltre, ovviamente, al sogno americano) lo slogan che Tony Montana fa suo: il mondo ci appartiene, se solo abbiamo i soldi per comprarcelo.
Con i primi guadagni del crimine Tony si presenta da sua madre e da sua sorella Gina offrendogli del denaro, che vorrebbe in qualche modo comprare il loro affetto (alla fine in parte ci riesce, la sorella si lascia coinvolgere nel giro criminale di Tony, e questo sarà anche la sua condanna a morte). C’è una questione di denaro, ovvero stabilire il prezzo della droga che Tony viene mandato a trattare col Boss boliviano Sousa, al centro dell’episodio che lo lancia al vertice dell’organizzazione criminale. E poi, il denaro è dappertutto nel film, si accumula, man mano che la carriera criminale procede, Tony Montana lo maneggia continuamente, lo conta e lo riconta, per essere sicuro che non ci siano errori; a un certo punto si lamenta che il suo banchiere di fiducia gli chieda un interesse del 10% per riciclarlo, e inveisce contro di lui, non vuole sottostare al ricatto. Ma sono solo le regole del gioco, chi si occupa di denaro vuole un margine di guadagno molto alto per coprire un rischio che diventa sempre più alto. Allora si rivolge a un banchiere ebreo, che accetta le sue condizioni chiedendo solo il 4%; e commette il suo errore fatale. Si tratta di una trappola per incastrarlo, la polizia fa irruzione cogliendo Tony e i suoi complici sul fatto, con il denaro ancora lì, tutto quanto sul tavolo, e lo arresta. Da quel momento in poi la sua parabola è in discesa. Per non andare in carcere si rivolge a Sousa, il boss boliviano, il quale ha amici potenti e può risolvere il suo problema. A patto che Tony, a sua volta, gli risolva il suo: assassinare un influente giornalista che rischia di rovinare il suo traffico internazionale di droga. Sarà da quell’omicidio mancato (non ha il coraggio di premere il timer di una bomba piazzata sotto l’auto del giornalista perché con lui ci sono la moglie e un bambino) che contro di lui si scateneranno le forze del Male, cioè gli uomini di Sousa e il suo killer di fiducia detto the Skull, il Teschio (chiara allusione alla morte che dà per conto terzi) il quale, nella grandiosa e spettacolare scena finale, gli darà il colpo di grazia.
Questo film mostra tutta l’ambiguità dell’immaginario prodotto dal Cinema. Scarface è un perdente o un vincente? Ha capito fino in fondo il gioco in cui era coinvolto ma ne è rimasto schiacciato a causa delle sue debolezze personali (ad esempio la cocaina, da cui è dipendente insieme a sua moglie Elvira, oppure la sua inconscia attrazione sessuale e la sua morbosa gelosia per la sorella Gina, che lo porta ad uccidere il suo migliore amico e sodale, Manny Ribera, quando scopre che i due sono amanti)? Oppure non si è accorto in tempo che le regole che implicitamente accettava, quelle del mondo del crimine, quelle del mondo in cui vive, stavano distruggendo la sua umanità? Certo è che il personaggio Scarface induce negli spettatori una forte identificazione, quasi un’empatia. Scarface è uno dei film più visti in assoluto della storia del Cinema. Mandarlo in onda, in televisione, significa un successo assicurato.
Per capire la natura dell’immaginario cinematografico possiamo provare a rivolgerci a chi ha osservato da vicino il fenomeno nel suo stato nascente. Marcel L’Herbier, importante regista francese del Cinema delle Avanguardie (la cosiddetta premiere vague) e autore di un film-capolavoro sul Denaro (L’argent,1928), fa un’affermazione, sorprendente e davvero illuminante, nel corso di una sua conferenza di quegli anni. Egli dice: poiché lo spazio e il tempo nel mondo moderno diventavano sempre più cari, l’arte aveva dovuto farsi arte industriale internazionale, cioè Cinema, per comperare lo spazio e il tempo come titoli immaginari del capitale umano (Il cinematografo e lo Spazio. Cronaca finanziaria, in AA.VV, Marcel L’Herbier, 1985). Cioè il Cinema, in quanto arte industriale, ha fin dall’inizio come suo scopo principale, anche se mai dichiarato, quello di impadronirsi dell’immaginario umano, facendo dell’uomo un capitale da sfruttare. L’uomo nelle sue componenti più intime, lo spazio e il tempo, diventati merce rara per il modo di vivere della borghesia moderna (si pensi alle grandi metropoli del mondo industrialmente avanzato, con i suoi tempi di vita accelerati e spazi sempre più compressi). Tutto dev’essere ridotto ad un’unica misura tramite quell’ astrazione che è il Denaro, l’equivalente universale di qualsiasi merce, anche quella rappresentata dall’Uomo. In anticipo sui tempi, L’Herbier vedeva quella che è una tendenza ancora in atto.
In un film del 2012 (In time) l’equivalenza Tempo-Denaro è ormai talmente perfetta che i due termini si scambiano i ruoli. A torto considerato soltanto un film di genere (fantascienza) In time racconta di un futuro più o meno prossimo nel quale le persone nascono già con un capitale di vita di 25 anni, dopo i quali ognuno dovrà cavarsela da solo. Aumentare il proprio capitale, la propria ricchezza, vorrà dire né più né meno che sopravvivere. Gli scambi non sono più in Denaro ma in Tempo, con l’ovvia conseguenza che soltanto i ricchi sopravvivono. La Scienza, che riesce a realizzare con i propri mezzi questo meccanismo di alienazione della vita umana, ha qui il ruolo del grande Complottista. Come quasi tutte le visioni distopiche della realtà, In time è un film che attinge a un immaginario paranoico, che in fondo non è così lontano dall’immaginario di Scarface. Ma allora, come può il Cinema salvarsi, e salvarci, da quella che è una sua innata tendenza? La tendenza a colonizzare l’immaginario umano?
Il più grande romanzo del ‘900 sul tempo, Alla ricerca del tempo perduto, di Marcel Proust, ha rischiato più volte di diventare un film. Non è la trama che colpisce in quest’opera allo specchio, che racconta la storia della vocazione letteraria dello stesso Proust (Marcel nel romanzo), ma la sua atmosfera, fatta di momenti melanconici, adatti ad esprimere la crescente disillusione nei confronti della vita, alternati a momenti quasi esaltati di straniamento, che invece esprimono stati di grazia improvvisi e passeggeri: sono quei momenti in cui la vita, per il tramite di misteriosi segni colti nell’arte, appare in tutta la sua profondità. Il motivo musicale di Vinteuil, una piccola frase musicale che compare più volte nella prima parte del romanzo (soprattutto l’episodio Un amore di Swann), e che allude enigmaticamente all’essenza dell’Amore; oppure la Veduta di Delft, capolavoro del pittore olandese Vermeer, dietro la quale probabilmente c’è lo stesso mistero della Bellezza, sono degli esempi di questi “segni” che ci coinvolgono in un’atmosfera straniante.
Il romanzo racconta, in fondo, un fallimento, perché Marcel non diventa mai uno scrittore famoso, non concretizza, non monetizza mai, si potrebbe dire, la sua passione e la sua vocazione per l’arte e la letteratura. Forse si rende conto cosa c’è dietro questa ambizione, in fondo puerile, di diventare un grande scrittore, e allora si occupa d’altro, cerca di vivere, sognare, amare, di cogliere il mistero della Bellezza. Suo padre, a dire il vero, vorrebbe introdurlo negli ambienti che contano dell’alta borghesia e dell’aristocrazia parigina, per aiutarlo a farsi un nome, a diventare qualcuno, e dal suo punto di vista questo giustificherebbe il tempo perso da Marcel dietro questa ambizione (nulla di diverso dal voler diventare un medico o un ingegnere), che non acquista concretezza finché non si traduce in un guadagno vero e proprio. Ma per Marcel è proprio quest’idea che l’arte possa essere un guadagno ad apparirgli puerile. No, Marcel preferisce perdere il suo tempo coltivando il suo amore per l’Arte, e la sua vocazione è solo apparentemente fine a sé stessa, cioè improduttiva (non direttamente monetizzabile, si potrebbe dire). Nella seconda parte del romanzo la disillusione si approfondisce, cresce insieme ad una maggiore conoscenza della vita, fino paradossalmente a momenti di folgorante rivelazione, in cui è l’Arte, non il Denaro, a svelare il senso della vita. Siamo al momento del tempo ritrovato.
La sceneggiatura che Harold Pinter scrisse nel 1972, per un film che avrebbe dovuto realizzare con il regista Joseph Losey, coglie perfettamente lo spirito del romanzo proustiano (Harlold Pinter, Proust, una sceneggiatura, Einaudi 1987). Soprattutto nel finale, le ultime due pagine. L’andamento è narrativo e rappresenta fino in fondo la disillusione. Odette racconta a Marcel come lei e Charles Swann sono stati felici, come lei lo ha amato e come, a causa della sua gelosia, si sono persi (è esattamente quello che accade anche a Marcel nei confronti di Albertine, il suo grande e tormentato amore). Poi gli presenta sua figlia Gilberte, cosa che accade anche nel romanzo, e la disillusione raggiunge l’apice (per lei Marcel aveva nutrito la speranza di essere felice, pur non amandola realmente). Qui la narrazione si interrompe. Inizia una serie di scene rievocative con i più bei momenti della vita di Marcel. Queste scene ci portano indietro nel tempo, fino ad un punto focale. Potrebbero sembrare dei flash-back ma non lo sono. Sono immagini in cui il Tempo si fa trasparente, quelle che Deleuze chiama nei suoi libri sul Cinema Immagini-Tempo (in particolare Gilles Deleuze “L’immagine-tempo, Cinema2”,1985). Il volto di Gilberte sorridente, alcuni luoghi di Combray (paese in cui Marcel trascorre i più bei momenti della sua infanzia), Marcel bambino che guarda fuori dalla finestra del suo giardino…fino al quadro di Vermeer, La veduta di Delft, che nel suo romanzo Proust definisce il più bel quadro del mondo. Il film finisce con l’inquadratura di un particolare del quadro, il muro giallo; piccolo particolare, ma “segno” colto nell’arte come rimando al senso della vita. Segno che rimane enigmatico, non interpretabile, come lo schermo giallo, ultima inquadratura del film, e la voce di Marcel fuori campo che commenta: “era il momento di incominciare”.
La disillusione di Marcel nei confronti della vita è superata, e il momento della rivelazione è il momento in cui il Tempo mostra tutte e due le sue facce, quella rivolta al passato e alla memoria, e quella rivolta al futuro. Perfettamente distinte ma indistinguibili al tempo stesso.
Sono queste le immagini a cui il Cinema ancora oggi aspira. Ed è veramente un peccato che questo film non sia mai stato realizzato.
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