“L’inevitabile non accade mai, perché quello che accade è l’imprevedibile” (Franco “Bifo” Berardi)
Insomma, ancora non sappiamo se L’Ispettore Coliandro, serie ispirata ai romanzi di Carlo Lucarelli (Nikita, 1991; Falange armata, 1993) e trasposta per la televisione dai fratelli Manetti a partire dal 2006, avrà mai un seguito, una nuova stagione con dei nuovi episodi, così come vorrebbero i suoi fans. Già la quarta stagione fu praticamente dimezzata dalla Rai nel 2010, ufficialmente “per problemi di budget”, (due soli episodi andati in onda invece dei quattro previsti), dando luogo ad una vera e propria sollevazione da parte dei suoi sostenitori, molti dei quali erano poliziotti veri, che crearono anche una pagina Facebook, e bombardarono di mail di protesta la Rai. A testimonianza di un affetto vero, sincero e duraturo per questo personaggio. Coliandro ha i suoi sostenitori, che vorrebbero, anche oggi, rivederlo in televisione (io sono tra questi). Ma ha anche i suoi detrattori.
Il personaggio Coliandro o lo si ama o lo si odia. Mia figlia, ad esempio, dice che la fiction è piena di violenza gratuita, e che Coliandro è un tipo (dice proprio così, un tipo) piuttosto volgare, con un’espressione da ebete stampata sul viso.
Come darle torto? Con poca convinzione cerco di difendere, non tanto lui, il personaggio, quanto la fiction, facendo notare a mia figlia il sottile gioco degli autori con i cosiddetti generi cinematografici (e non solo), a cui praticamente ogni puntata si ispira: dal poliziesco, (Coliandro è un grande fan dell’Ispettore Callaghan, le cui frasi più famose cita a ripetizione, praticamente in ogni puntata); al genere noir, al genere arti marziali, al serial killer-movie, al mafia-movie, ai Manga giapponesi… Le faccio inoltre notare che verosimilmente gli autori di Coliandro si sono ispirati al cosiddetto Pulp: più che un genere, una modalità di raccontare le storie, basata sull’estrema crudezza e realismo delle descrizioni, e su tematiche che ruotano tutte intorno a crimini, delitti, sesso… Forse gli esempi più famosi sono l’ultimo romanzo di Charles Bukowski (Pulp, una storia del XX secolo, pubblicato postumo nel 1994), e il film Pulp fiction di Quentin Tarantino, che è dello stesso anno. In Italia, tutti i primi romanzi di Aldo Nove sono un esempio di narrativa Pulp.
Ma non posso eludere la questione (mia figlia è piuttosto esigente, vuole che i miei giudizi siano sempre centrati): com’è questo Coliandro, il personaggio Coliandro? Con tutta evidenza, nella trasposizione televisiva ancor più che nei romanzi di Lucarelli, dove aveva ancora un suo spessore psicologico, Coliandro è un vero e proprio concentrato di atteggiamenti sclerotizzati, opinioni prese a prestito, luoghi comuni e clichè mentali, che in lui sostituiscono completamente il modo di essere e di pensare. Il Coliandro della fiction si veste scimmiottando i suoi idoli cinematografici (il giubbotto nero di pelle e le Ray-Ban come Silvester Stallone in Cobra), parla come loro, e soprattutto pensa per tic mentali e stereotipi, peraltro ampiamente diffusi: secondo lui una donna è inadatta a fare il poliziotto, e se è carina è semplicemente “scopabile”; i Rom sono tutti dei ladri, e gli extracomunitari tutti più o meno uguali (non distingue un pakistano da un indiano); i Punkabbestia sono la rovina di Bologna, e così via… E questo lato del personaggio Coliandro è a metà tra il realistico (un impatto molto forte della cultura di massa e del cinema di genere può effettivamente aver provocato, in una persona semplice, quasi banale come è Coliandro, questi effetti) e il parodistico. Anzi, è proprio la parodia di un uomo semplice a risultare realistica in questo caso.
Detto che Coliandro è una persona semplice, che il pensiero, ma anche la cultura in generale, non sono il suo forte (nella sua casa non si vede neanche un libro, e i suoi gusti musicali si orientano sulle copertine sexy dei dischi del famoso sassofonista Fausto Papetti); che assomiglia molto all’uomo comune, l’uomo comune senza filtri, impregnato di pregiudizi e privo di velleità intellettuali, l’uomo comune che non si vergogna di sé stesso e anzi sbandiera tutto quello che oggi si definisce il “politicamente scorretto”, non mi sembra però un personaggio banale. O addirittura fallimentare dal punto di vista artistico, solo una furbata dei suoi autori per ottenere facile successo puntando sulla retorica del politicamente scorretto, su un anticonformismo di facciata che finisce per essere prevedibile e scontato (è questa la critica di Aldo Grasso, in particolare alla prima e alla seconda serie televisiva di Coliandro).
Gli autori di Coliandro non sono poi così sprovveduti sul piano culturale. Nel terzo episodio della terza stagione di Coliandro, dal titolo “sangue in facoltà” (uno dei più belli, se non il più bello di tutta la serie), uno dei personaggi, un professore universitario che poi verrà assassinato da una serial-killer cieca, fa delle citazioni che non ci si aspetterebbe in una fiction televisiva: il filosofo francese Gilles Deleuze, il saggista americano Kevin Kelly e perfino il nostro Franco “Bifo” Berardi, scrittore oramai settantacinquenne, storico leader di Potere Operaio assieme a Toni Negri negli anni ’70, e rappresentante della controcultura underground, in particolare quella bolognese. Deleuze ha scritto due libri molto importanti sul Cinema (L’immagine movimento, Cinema1 e L’immagine tempo, Cinema2), descrivendolo come una forma d’arte pensante, che può avere delle intuizioni sulla realtà scavandola dall’interno. Kevin Kelly ha ispirato il film Matrix e si è occupato di quelli che potrebbero essere i cambiamenti della nostra vita dovuti alle nuove tecnologie. Bifo Berardi è uno studioso della cybercultura da un punto di vista molto particolare: lo scontro tra le possibilità creative e il pericolo che si affermi una civiltà basata sull’automatico (e questo molto prima che si parlasse di intelligenza artificiale). Tutti e tre condividono la fede nell’intuizione come quella forma d’intelligenza che può proiettarci nel futuro, e che è al centro dell’opera del grande filosofo francese Henry Bergson. Ma cosa c’entra tutto questo con Coliandro?
In effetti, da un punto di vista puramente narrativo, il successo di questa fiction si basa, a mio parere, su una formula relativamente semplice, un meccanismo che, pur ripetendosi costantemente, come fosse un copione, rende ogni puntata imprevedibile. Anzi: una vera e propria rappresentazione di cosa sia l’imprevedibilità. Questa formula è l’intuizione di Coliandro, il suo modo di procedere, come personaggio attraverso il quale si dipana l’azione, entrando direttamente, fisicamente direi, nei “casi” da risolvere di ogni puntata, e trasformandoli con la sua sola presenza. Scombinando i piani dei “cattivi” (ma anche dei suoi superiori, che procedono logicamente, metodicamente, e sempre tenendosi a una certa distanza da dove tutto avviene), e infine risolvendo il caso. E’ qualcosa di nuovo per il genere poliziesco, nessun detective, poliziotto o ispettore aveva mai proceduto così; di solito, anzi, quelli più famosi scelgono la via opposta, la via del pensiero logico e delle conclusioni inevitabili. Forse è per questo che tutti credono sia semplice fortuna, i colleghi di Coliandro e i suoi superiori pensano che lui sia sostanzialmente un incapace e un incompetente, o al massimo un sempliciotto molto fortunato.
Nell’episodio uno della stagione sette di Coliandro, ispirato ai Manga giapponesi e intitolato Yakuza, l’ispettore Bertaccini, una collega di Coliandro, dice forse una cosa illuminante: Lui (Coliandro) è sempre nel posto sbagliato al momento giusto. E’ nel posto sbagliato perché secondo gli ordini ricevuti e secondo ogni logica non ci dovrebbe essere, ma dal punto di vista del tempo è sempre nel posto giusto. Il successo di Coliandro (la sua capacità di risolvere i casi pur non avendoci capito niente) è una questione di tempo. Dunque di intuizione.
Come spiega Bergson (Pensiero e Movimento, 1934), c’è una netta differenza tra l’intelligenza comunemente intesa, basata sul pensiero logico, e l’intuizione, che va direttamente alle cose. Mentre la prima mantiene uno sguardo lucido ma distante sulla realtà, in qualche modo congelandola, l’intuizione aderisce al suo oggetto per una sorta di simpatia, lo coglie quasi confondendosi con esso. Pensiero logico e intuizione sono anche due modalità di risoluzione dei problemi molto diverse tra loro. Il primo ne scompone gli elementi analizzandoli uno per uno, l’intuizione invece lo afferra tutto in una volta, arrivando alla soluzione mediante una illuminazione improvvisa. E’ l’intuizione che immette il movimento nel Pensiero e con esso il tempo. Dietro le nostre rappresentazioni, l’intuizione scopre la vita.
Ed è grazie all’intuizione, un’intuizione così potente da non aver bisogno nemmeno di un barlume di Pensiero, che Coliandro, quasi come un veggente, segue un suo filo delle indagini, fa delle scelte che sembrano completamente sbagliate ma indovina sempre la pista giusta, e finisce per trovarsi nel posto giusto (sbagliato solo per i suoi colleghi), al momento giusto. Se il “caso” poliziesco è un problema da risolvere (come lo è la vita in fondo), Coliandro ci entra dentro con i tempi giusti, lo vive in prima persona, cambiandone inevitabilmente le coordinate. In fondo è quello che succede sempre quando viviamo veramente. E’ per questo che l’inevitabile non accade mai, perché quello che accade è sempre l’imprevedibile.
A dispetto di un copione che sembra già scritto, Coliandro non recita, vive la sua parte, come l’uomo dell’intuizione secondo Bergson. Entra nel “caso” per una sorta di simpatia dovuta alla sua intuizione, fino a farne parte, fino a diventare uno degli elementi del problema stesso, proprio quello che fornisce la soluzione. Insperata, imprevedibile, com’è la vita stessa. Tutto si sarebbe svolto diversamente, senza Coliandro, lui è quel granello di caso che inceppa l’ingranaggio; o che forse lo fa andare diversamente, rivelandone il senso più nascosto che consiste nella libertà da ogni legge prestabilita.
Il suo personaggio è affine ai grandi inadeguati dello schermo, spesso protagonisti del genere burlesque, che innescano senza volerlo delle gag comiche, e si ritrovano in situazioni ingestibili create da loro stessi. Come l’ispettore Clouseau de La pantera rosa, o Hrundi Bakshi, il maldestro attore indiano di Hollywood Party, due film del grande Blake Edwards.
Una caratteristica veramente essenziale del personaggio Coliandro è che lui s’innamora sempre, in ogni puntata. Lui ha bisogno di simpatizzare con gli elementi del “caso”, del suo problema. Coliandro lo si ama solo se si simpatizza con lui. E chi lo giudica da una posizione intellettualistica (come fa Aldo Grasso ad esempio) non lo capirà mai. Perché forse è l’Amore la sola vera forma di conoscenza. Nella vita come nell’arte.
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