Angelo è un film imparentato con il cinema di Michael Haneke pur non possedendo l’ambiguità espressiva spesso disturbante del cineasta austriaco.
La rappresentazione non concede nulla allo spettatore. Senza enfasi drammatica, senza alcuna indulgenza allo spettacolo, il racconto del bambino nigeriano venduto a una nobildonna siciliana (Alba Rohrwacher) e destinato alla corte del principe di Liechtenstein, è un susseguirsi di quadri immobili che diluiscono il tempo dilatandolo e rendendolo luogo di un torpore avvilito. Nella traccia vitrea di una temporalità che si sottrae alla facile suggestione, Angelo asseconda la scansione ellittica e frontale di una scena in cui l’apologo filosofico affianca una parabola che vedrà Angelo diventare maggiordomo e istitutore del principe di Liechtenstein. Un bambino poi ragazzo che metterà a punto gli insegnamenti della libertà e sarà accolto nella loggia massonica di Mozart fino a divenire in anni più recenti personaggio centrale nel discorso sul pensiero razziale antecedente il Positivismo. Il bambino improntato alla pedagogia del tempo scopre il progresso attraverso l’educazione e la cultura, ma con esso scopre anche il desiderio di libertà, il confronto tra il dovere e la libera volontà, a cui deciderà di rinunciare per non perdere l’appartenenza sociale che ha però in serbo per lui un destino terribile e grottesco. Finirà infatti, dissezionato da becchini che paiono usciti dalle immagini de Il figlio di Saul, in bella mostra in una teca del museo delle scienze di Vienna, impagliato come gli uccelli che compaiono immobili nell’esposizione.
Doloroso e scostante nella sua singolare assenza di empatia, il secondo lungometraggio del regista Markus Schleinzer mostra corpi e volti colmi di impotente sgomento e privi di reattività, implosi eppure ancora potenzialmente ribelli come Angelo, divenuto uomo, che si illude di poter essere considerato al pari degli altri in ragione della sua acquisita appartenenza sociale e di poter vivere assieme ad una giovane domestica bianca di cui si è innamorato. Nel protratto ripetersi di reticenze, i volti del film sono colti con una modalità unicamente frontale, senza indulgere in sensazionalismi, con il prevalere di un mascherato senso del grottesco evidente nel destino del nigeriano che finirà in un museo con le luci al neon – anacronismo volontario di un film che appare una rappresentazione funerea e che nella sequenza conclusiva ci restituisce un bagliore di accecante freddezza. Film difficile, è un quadro d’infelicità, rigorosamente riprodotta da una ricerca storica che diventa raccolta di momenti della cattività di uno dei mori più famosi nell’Europa dell’Illuminismo. La dimensione dell’apologo filosofico e la critica alle pretese del positivismo sono evidenti. Il racconto non ha una scansione temporale indulgente con lo spettatore. Anzi, il tempo di attesa del quadro va oltre il necessario, si sofferma sulle pose dei personaggi fino a creare, nell’esitazione, una specie di unica reiterata dissolvenza fatta di inquietudine e disillusione. Un film che è meglio vedere solo se si è pronti a scommettere in quasi due ore di tormentato silenzio e immobilità della macchina da presa, che ci mostra l’ascesa e lo scontro con i pregiudizi razziali di questo sfortunato nigeriano al cospetto della corte europea.
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