Ho visto Once Upon A Time In…Hollywood, proiettato su un cielo di stelle. E non è una metafora.
Sul film, questo film, come tutti gli altri film di Tarantino da quando Tarantino è una stella, dirò poco, pochissimo, quasi nulla, d’altronde si tratta di un cineasta di cui parlano tutti, ma veramente tutti, e quando di una cosa parlano tutti equivale a dire che non ne parla nessuno. Il tutto è il niente, il niente è tutto… questione di quantistica… inutile continuare.
Sono entrato in un cinema, un cinema di quartiere che esiste da almeno quarant’anni, il Cinema Arcobaleno al Vomero, a Napoli.4L’Arcobaleno era una delle più grandi sale cittadine che con l’avvento delle multisale è andato in disgrazia, per cui ha ceduto la parte più grande a un supermercato, tanto in fondo vendere film o vendere patate per gli esercenti è quasi la stessa cosa, forse perché molto probabilmente ne sanno più i “verdummari” di patate che gli esercenti di film. Dicevamo, andando in disgrazia ha frammentato lo spazio che restava in tre piccole sale, che somigliano di più a dei lunghi autobus che a dei cinema, ma la moltiplicazione delle sale, così come quella miracolosa dei pani e dei pesci, è stata molto comune (miracoli dell’assistenzialismo pubblico).
Il film in questione è proiettato nella sala 1. Piena in verità, circa 120 posti, tutti in attesa dell’ennesimo prodigio tarantiniano. Il proiettore si accende, e la prima immagine è un nero. E’ qui che il cinema compie una magia senza tempo.
Il fotogramma nero non è del tutto nero, campeggiano centinaia di punti bianchi, disposti a caso… il pubblico inizia a rumoreggiare. Il film inizia e procede, e nelle scene senza luce, quelle di notte o in penombra, gli sciami di punti bianchi, coprono e invadono, i vestiti dei protagonisti, le facce le automobili, le strade. Dopo circa venti minuti di indignazione, avevo deciso di alzarmi, chiedere i soldi del biglietto indietro e mi ero ripromesso di scrivere all’associazione degli esercenti una lamentela per la totale inadeguatezza della proiezione, poi il dio del cinema mi ha illuminato.
Ho ceduto alla premessa del film, al “C’era una volta”, ho immaginato di essere il piccolo Tarantino che nel ‘69, data in cui è ambientata la vicenda, aveva appena sei anni e quindi vedeva le cose in modo fantasioso. La sua stessa ricostruzione è un’enorme illusione del suo immaginario, ed è così che ho iniziato a pensare alle origini del cinema.
A un baraccone di periferia, una notte d’estate del 1850, c’è uno spettacolo di lanterne magiche, di proiezioni ottiche, di fantasmi, di fasmagorie. Suoni di vento scuotono gli spettatori, ectoplasmi di luce vengono proiettati nell’aria, confondendosi con lanterne di fuoco, i bambini tremano, ridono, si entusiasmano, guardando ciò che sarà cinema attraverso un cielo di stelle.
Allora ho accettato la circostanza, la proiezione non era piena di buchi o imperfetta, ero io che non stavo guardando bene, non ero attento… la luce che portava, le ombre dei morti del 1969 su quello schermo si confondeva col nero del cielo, e dietro c’erano sciami di stelle, costellazioni. E ogni volta, che il buio del film prendeva il sopravvento sulla luce accecante del sole, quelle costellazioni misuravano di volta in volta l’orientamento, la direzione di un film, che per forza di cose Tarantino ha fatto per sé, e non per gli altri.
Come aver scritto una favola, come se quei punti sullo schermo indicassero la direzione per l’isola che non c’è, un’ isola in un un universo parallelo in cui Sharon Tate quella notte non è stata massacrata con il bimbo in grembo suo e di Polanski. Poco importa se qualcuno, tentando di spiegare a qualcun altro la vicenda abbia detto: “Polanski è un regista veramente esistito”, ignorando quindi che sia vivo e ignorando i suoi film, poco importa se qualcuno abbia scambiato un piccolo cinese nel ‘69 per Bruce Willis, perché passi il non conoscere Bruce Lee, ma non è perdonabile pensare che Bruce Willis sia in realtà cinese… passi anche ridere degli spaghetti western ignorando chi fosse Corbucci, chi fosse Margheriti, chi fosse… così come ho ignorato la totale inadeguatezza di un attore gonfiato come Brad Pitt di fronte ad un mostro come Di Caprio che ha sempre una faccia da bamboccio ma che è di sicuro uno degli attori americani più bravi del mondo.
Passi che in realtà, il cielo di stelle non esistesse e che le stelle non fossero altro che decine di pixel bruciati del sensore del proiettore della sala, che non dovrebbe nemmeno proiettarlo gratis un film con un proiettore danneggiato, figuriamoci a pagamento, ma che molto probabilmente è gestita da persone che non potrebbero nemmeno stare al mercato a vendere patate, lamentandosi di vendere poco ben sapendo di vendere patate marce.
Se non fosse stato per il cinema, per la sua natura magica, mi sarei alzato e andato via, discutendo sul rimborso del biglietto con dei cialtroni.
A questo serve il cinema, e i suoi resti: a superare le idiozie della vita.
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