The Irishman è prova di tenace vitalità per Martin Scorsese – un tempo studente del New American Cinema, oggi conclamato maestro del cinema – che raduna gli attori feticcio (De Niro, con cui non realizzava un film da 23 anni, e Joe Pesci, assente dallo schermo dal 2010, affiancati da Al Pacino, al suo primo ruolo con il cineasta) per un film-team che lambisce i cambiamenti e i crocevia a cui il tempo conduce i personaggi; il regista difende con lucidità la sua personale idea di cinema anche attraverso Netflix, il colosso dello streaming.
Il film, uscito nella sale per soli tre giorni, sarà trasmesso da Netflix a partire dal 27 novembre
Scorsese, in quello che potrebbe apparire un compromesso forzato (realizzare attraverso la piattaforma, unico partner disponibile, il suo film da 150 milioni di dollari) trova una via per indicare la differenza, la strada dell’autorialità che riduce in secondo piano tutte le polemiche degli ultimi mesi su cosa sia o meno cinema, cinecomic o film d’autore. Qui è il cineasta di Taxi driver, ancora una volta, a realizzare un’opera nuova, che non disattende le aspettative dei suoi fan ma si articola in un montaggio più misurato del solito non solo per modularsi con una fruizione domestica ma per portare in luce una riflessione sul tempo che diventa rivisitazione di un genere con poche concessioni alle emozioni più facili.
Anti-mimetico e non spettacolare, lungo ed elaborato, The Irishman è un film composito dove il quadro di grande formato rappresenta la dimensione cinematografica irriducibile di un movimento che colpisce nel suo andare avanti e indietro nella Storia, ma che ugualmente induce a ripensare ogni singolo personaggio, a riflettere sugli accadimenti, in una ricognizione crepuscolare del disfacimento che non nasconde il cuore linguistico scoppiettante del film.
Tornando alle origini della sua vocazione avanguardista, dopo la pedagogia di Hugo Cabret Scorsese dirige con The Irishman un film-manifesto, portando la sua cultura cinematografica nei silenzi e nella composizione corale, nelle tinte noir e nel dramma da camera, nell’amore per il neorealismo e nell’impeto Nouvelle Vague che rappresentano l’abito mentale per il quale sarebbe stato inconcepibile portare in scena i suoi tre attori feticcio facendoli interpretare, nei vari momenti della storia, da altri interpreti più giovani. Con un gesto significativo che determina di per sé l’unicità di The Irishman, Scorsese lascia allora alla Industrial Light And Magic il tempo necessario per realizzare il processo di invecchiamento e ringiovanimento che serve affinché, nelle diverse età, gli attori restino proprio Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci. Grande gesto d’amore che vede gli interpreti trasformarsi ed esprimere i cambiamenti reali, permettendo allo spettatore di cogliere, come davanti ad un’esperienza di rispecchiamento, le mutazioni profonde tanto delle loro esistenze quanto dei loro ruoli che permettono di vedere ancora una volta al lavoro i tre interpreti iconici. Invecchiano gli interpreti e al contempo invecchiano i loro personaggi: in questa adesione fisico-esistenziale la sorprendente originalità del film, che dopo una prima parte in cui si succedono incontri e intrecci criminali a cui Scorsese ci ha elegantemente abituati, nella seconda parte si concede di concentrarsi sulle conseguenze delle violenze agite e subite, dove Frank Sheeran, ex trasportatore e veterano della seconda guerra mondiale divenuto sicario alla mercé della Mafia italoamericana, ammette che: “Non ti rendi conto di quanto scorre veloce il tempo, finché non ci arrivi”. L’opera ambiziosa di Scorsese intreccia gli eventi storici e trova un suo passo più misurato nella definizione dei rapporti umani al centro della scrittura. La violenza che permea la connivenza tra il crimine e le istituzioni, appare meno iperbolica rispetto a Quei bravi ragazzi e Casinò, di cui The Irishman sembra un possibile seguito ma che è inevitabilmente l’esito della maturazione del suo autore, dove anche le performance attoriali si sviluppano nei non detti e nei sottotraccia che segnano gli stati emotivi: nell’accettazione di Frank Sheeran/De Niro di non essere stato il padre modello per la figlia, in Jimmy Hoffa/Al Pacino che si trasforma da combattivo sindacalista a dimesso predestinato nella parte conclusiva del film, nel pacato Russell Bufalino/Joe Pesci, lontano dall’immagine del malavitoso smisurato (il ruolo di Tommy De Vito in Quei bravi ragazzi portò a Pesci l’Oscar come migliore attore non protagonista nel 1991), pacifico nel trasmettere sentimenti di affetto quasi paterni verso il protetto Frank Sheeran.
Nei sessanta minuti conclusivi, The Irishman cresce di un’intensità dolente e trattenuta, reca note crepuscolari, ci mostra il tradimento come una scelta imposta a Frank, violenza nella violenza di un sistema la cui apoteosi miete vittime anche tra coloro che sembrano esercitare il controllo. La coralità frena il determinismo della rappresentazione favorendo momenti di riflessività, dando il meglio nei confronti a due, nell’amicizia di Frank e Jimmy destinata ad essere spazzata via dalla violenza che nel film appare deprivata di qualsiasi glamour o tentazione spettacolare. Lavorando per sottrazione, Scorsese lascia percepire l’indole compromessa di Frank, i suoi dubbi, il suo tremendo impaccio nell’impossibilità di riuscire a cavare fuori Jimmy da un destino segnato. E’ Frank ad osservare senza riuscire a cambiare i fatti, senza sottrarsi alle regole; ad essere quel genitore senza morale che la figlia non avrebbe voluto. Dramma di figli senza padri, e di padri incapaci di essere genitori, The Irishman culmina in un finale semi-sospeso che può rammentare Il Padrino, dove in realtà Scorsese, come per tutto il fìlm, chiude i conti con il passato ma ci lascia oltre il sorriso sospirante di Noodles in C’era una volta in America, film della nostalgia che sarebbe facile affiancare a The Irishman. Il regista ci porta a guardare da dietro una porta socchiusa il personaggio di Frank anziano, attraversato da ricordi e rimpianti. Quando Frank incontra una giovane infermiera che non sa chi fosse Jimmy Hoffa, accetta questa situazione. Non si scompone più di tanto. Lui stesso ha contribuito all’insabbiamento della verità. Se volesse porvi rimedio (non lo sappiamo) sarebbe comunque troppo tardi.
E con il suo film Scorsese prende le distanze da quel mondo che pure ha amato cinematograficamente, regalandoci un sussulto nella volontà di raccontare, anche attraverso Netflix, i segreti dell’arte cinematografica per i quali non è ancora venuto il tempo di adagiarsi sulla malinconia.
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