All’inizio degli anni Cinquanta l’antropologa americana Hortense Powdermaker, nel volume Hollywood the Dream Factory, scriveva: “Hollywood rappresenta il totalitarismo. Totalitarismo a base economica più che politica, ma sostenuto da una concezione filosofica simile a quella dello Stato totalitario. A Hollywood, la concezione dell’uomo come un essere passivo che si presta ad essere ‘manipolato’ investe nella stessa misura le persone che lavorano nella produzione cinematografica, i contatti personali e sociali, il pubblico e i personaggi dei film”.
E’ noto che il mito abbagliante di Hollywood, le imposizioni contrattuali dei rigidi produttori e i ritmi di lavorazione, almeno nell’età d’oro dello studio system, hanno mietuto molte vittime e una di queste è stata la giovane Judy Garland. Ce lo dice il biopic Judy, uscito in questi giorni nelle sale italiane, diretto da Rupert Goold e tratto dall’opera teatrale di Peter Quilter End of the Rainbow.
Il film racconta l’ultima, emozionante ma non sempre felice, serie di concerti di Judy Garland al Talk of the Town di Londra nel 1968: faticosa avventura che la cantante e attrice americana, in condizioni psicofisiche non eccellenti ma dotata sempre di una gran voce, accettò di intraprendere per cercare di risanare la sua disastrosa situazione finanziaria. Morì proprio a Londra, il 22 giugno del 1969, sei mesi dopo l’ultima esibizione, lontana dai suoi adorati figli Joey e Lorna (avuti da Sidney Luft) e Liza Minnelli (nata dal matrimonio con il regista Vincente Minnelli). Il decesso fu conseguenza inevitabile di un prolungato abuso di barbiturici e alcol, tragico finale di un’esistenza non troppo appagante. Ma il bellissimo Judy, che si poggia del tutto sulla straordinaria performance di Renée Zellweger capace di riproporre fedelmente le esatte movenze e le espressioni della diva, non si limita a raccontare gli ultimi mesi di vita di Judy Garland e vuole risalire alle cause di quella infelicità che la affliggeva. Così, in ricorrenti flashback, veniamo trasportati nella Hollywood di fine anni Trenta, dove troviamo una giovanissima Judy non ancora maggiorenne in compagnia dell’amico e collega Mickey Rooney o sul set del musical Il mago di Oz (The Wizard of Oz, di Victor Fleming, 1939), dove il corpulento magnate della MGM Louis B. Mayer, ricorrendo a subdoli ricatti morali e sistemi di persuasione poco ortodossi, l’avrebbe sottoposta a stress psicologico, estenuanti piani di lavoro, orari massacranti e una dieta ferrea: tutte cose che, a quanto pare, le causarono anche seri problemi di insonnia che si trascinò per tutta la vita. La Hollywood totalitaria, in seno alla quale la bambina prodigio originaria del Minnesota visse la sua adolescenza, sarebbe stata dunque la causa dei traumi della povera Judy.
Nata nel 1922, figlia di artisti del vaudeville, Frances Ethel Gumm (questo il vero nome di Judy Garland) cominciò a esibirsi prestissimo insieme alle due sorelle più grandi, dando vita a un trio che tra il 1929 e il 1935 partecipò anche ad una serie di film musicali tra cui Holiday in Storyland e Bubblesdiretti da Roy Mack. Poi, notata da un talent scout della MGM, la giovane promessa dello star system americano spiccò il volo da sola e divenne Judy Garland. Il mago di Oz le valse l’Oscar giovanile come migliore attrice. Stesso riconoscimento lo ebbe per Piccoli attori (Babes in Arms, di Busby Berkeley, 1939), interpretato al fianco di Mickey Rooney, con il quale lavorò anche in alcuni film della celebre serie di Andy Hardy (Love Finds Andy Hardy, 1938 – Andy Hardy Meets Debutante, 1940 – Life Begins For Andy Hardy, 1941). Altri suoi partner maschili sul grande schermo furono Gene Kelly nel filmIl pirata(The Pirate, di Vincente Minnelli, 1948), Fred Astaire in Ti amavo senza saperlo(Easter Parade, di Charles Walters, 1948), James Mason in E’ nata una stella(A Star Is Born, di George Cukor, 1954), il secondo film più famoso della Garland dopo Il mago di Oz. L’ultimo titolo della sua carriera cinematografica è stato Ombre sul palcoscenico(I Could Go On Singing, di Ronald Neame, 1963). Abbandonato il cinema, negli ultimi anni di vita continuò a concedersi dal vivo in teatro, tra matrimoni falliti, problemi di soldi, insicurezza, crisi depressive, ma anche qualche nuova soddisfazione professionale.
Non sono pochi i momenti di commozione in questo film dedicato alla triste parabola di Judy Garland, come quando all’inizio la vediamo costretta a esibirsi con i due figli più piccoli in un locale di Los Angeles per un compenso di soli centocinquanta dollari. Non possiede più nulla, il suo quarto matrimonio è naufragato, non ha una casa e viene cacciata dall’albergo in cui è solita soggiornare: situazione precaria che porterà il padre dei due bambini a reclamarne, non senza ragione, la custodia. Emozionante anche l’incontro con due affezionati ammiratori londinesi, una coppia gay che ha acquistato i biglietti per tutte le repliche al Talk of the Town: con loro Judy decide sorprendentemente di trascorrere una serata dopo lo spettacolo, sintomo di una ricerca di normalità e serenità che per tutta la vita la Garland evidentemente non è mai riuscita a ottenere, e con i due nuovi simpatici amici condivide anche il ricordo straziante delle vessazioni subite a causa di una società omofoba, quasi a voler rimarcare il ruolo di icona gay attribuito nel tempo a Judy Garland. Toccante la telefonata alla figlia Lorna, imbarazzanti i battibecchi con gli spettatori innervositi nelle serate in cui saliva sul palco ubriaca e strepitosa, infine, l’ultima inaspettata esibizione con le note e la parole della dolcissima Somewhere Over the Rainbow… Laggiù, oltre l’arcobaleno. Commossa, Judy esorta il suo pubblico a non dimenticarsi di lei, mai. Ancora oggi, dopo oltre cinquant’anni dalla sua scomparsa prematura, non è stata dimenticata, perché come diceva il mago di Oz all’uomo di latta: “un cuore non si giudica solo da quanto tu ami, ma da quanto riesci a farti amare dagli altri”.
Lascia un commento