Questa sera in TV. Doppio Hitchcock con Cary Grant
A quarant’anni dalla scomparsa di Alfred Hitchcock, La 7 (canale 7) ripropone mercoledì 29 aprile due “cult” interpretati da Cary Grant: alle 21,20 Intrigo internazionale (1959) e alle 23,45 Notorius (1946). Sono il vertice della collaborazione tra il ‘maestro del brivido’ e l’attore di Bristol, iniziata con Il sospetto (1941) e proseguita con Caccia al ladro (1955).

Intrigo Internazionale
Tutto iniziò con il bianco e nero
Con Il sospetto (1941), tratto dal romanzo “Before the fact” di Francis Iles (1932), Alfred Hitchcock, al suo secondo film americano, realizza un piccolo classico che piace molto al grande pubblico ma che non rientra canonicamente tra i suoi film più celebrati. Eppure, il grande regista realizza uno dei suoi film più abili, nel contesto di una narrazione spesso ambivalente ed equivoca che si interroga avvincendo lo spettatore attorno ai rischi sempre insiti nella condizione dell’innamoramento. Un film dove il dramma di sentirsi intrappolati in un misterioso e a tratti indecifrabile vortice sentimentale assume i toni del complotto. Il sospetto è nella mente di Lina (Joan Fontaine) che si innamora di Johnnie – all’inizio quasi per sollevazione contro i consigli dei suoi famigliari – playboy con il volto strafottente e il temperamento irresistibile di Cary Grant.

Il Sospetto
L’attore viene utilizzato da Hitchcock in quattro dei suoi film e ogni volta il cineasta tenta di restituire all’interprete una dimensione non tipicamente da commedia reinterpretandone le caratteristiche divistiche, qualche volta lavorando sui tratti di ambiguità, come in questo caso o in Notorius, successivamente trasformandolo addirittura in un ex-ladro prestatosi alla causa della Resistenza (Caccia al ladro), fino alla raffigurazione del self made man che resta imbrigliato nella frenesia del grande complotto (Intrigo internazionale). Grant attore prediletto che, come James Stewart, interpreterà quattro dei migliori film del regista inglese. Ne Il sospetto la felicità iniziale della coppia s’incrina non appena Lina scopre, una dopo l’altra, le menzogne raccontate senza ritegno da Johnnie, giocatore incallito e poco propenso alle responsabilità familiari. Numerose altre rivelazioni sulla vita del marito conducono Lina al terribile sospetto che Johnnie voglia ucciderla e l’amore si tradurrà per lei nell’ossessione di essersi fidata della persona sbagliata. Il fantasma dell’inganno e’ inseguito in perfetto stile poliziesco, tanto che il film può essere vissuto come un attraversamento nella percezione di Lina, cioè un’esperienza totalmente soggettiva che consente sia l’immedesimazione nei sospetti della donna sia in quelli dello spettatore. Questo statuto percettivo di concreta incertezza e sospetto crescente diventa una condizione di tensione stemperata soltanto da alcune note di humour british; il film si propone come un resoconto coinvolgente e ansiogeno sulla fede e le speranze da investire nell’altro quando l’amore si prospetta come il relazionarsi in un cammino nebuloso e denso di incognite.

Intrigo Internazionale
Una domanda sorge spontanea rivedendo oggi il film: come avrebbe potuto riformulare il suo film Alfred Hitchcock nello scenario della comunicazione digitale? Il suo mirabile e sottovalutato lungometraggio ci mostra la peculiarità del suo cinema come maestria artificiosa e invito alla consapevolezza, in una tensione che nasce dall’eccesso di informazione dello spettatore sul destino del personaggio e le atmosfere che evocano la dimensione della trappola, fisica e mentale, da cui, come nel cinema più celebrato del cineasta (da Notorius a La donna che visse due volte) ma anche in titoli meno frequentati (Il ladro), occorre liberarsi e superare gli inganni e i ripetuti travestimenti di chi affianca i protagonisti. Il sospetto, per vie delle sue magiche atmosfere, ricorda come nei casi migliori lo spettacolo possa tornare ad essere emozionante e catartico, cioè, per definizione, filosofico. Memorabile e studiatissima la sequenza in cui Johnnie sale le scale per portare il bicchiere di latte a Lina a letto. Un lampo surrealista che anticipa Io ti salverò e l’ambiguità, situazionale e non di meno storico-sociale, di Notorius. La luce bianca del bicchiere viene da dentro: fu volutamente illuminata con una lampadina interna, per sottolineare l’invadenza della condizione di incubo vissuta dalla smarrita e sempre più rassegnata protagonista.

Notorius
Nella cantina di Notorius
Antesignana di tutti i nascondigli dei misfatti nazisti è la fantomatica cantina in cui Devlin (Cary Grant) e Elena (Ingrid Bergman) scoprono il deposito di uranio in Notorius (1946), super-classico in cui, nel 1946, il grande regista racconta con stile anticipatore una storia d’amore che è una vicenda di coraggio e abnegazione. Hitchcock e i suoi sceneggiatori hanno perfettamente presente il quadro storico in cui operano. Notorius è il quarto e ultimo film antimilitarista di Hitchcock, dopo Il prigioniero di Amsterdam, Sabotatori, Prigionieri dell’oceano, e dopo i documentari d’impegno politico Bon Voyage e Aventure Malgache girati dal regista durante la Seconda Guerra Mondiale. Hitchcock mette molto di se stesso in questa vicenda incentrata sul conflitto tra amore (quello dei due protagonisti) e dovere (il senso del sacrificio comanda profondamente entrambi), fra morale individuale e bene collettivo. Elena Uberman, che sappiamo amare gli Usa a dispetto del padre spia nazista che muore in carcere dopo la sentenza di condanna a vent’anni di reclusione, nell’intento di collaborare con l’amato poliziotto Devlin e con i servizi segreti americani sposerà il nazista transfuga in Brasile Alessio Sebastien. Apparirà così agli occhi di tutti una donna facile – e inizialmente una “Mata Hari” allo sguardo del reticente Devlin-. Ma dietro la facciata cui allude il titolo Notorius – conosciuto – c’è il tormento della passione, sia ideale (difendere il paese che si ama), sia sentimentale (sacrificarsi per condividere la missione di Devlin, che Grant interpreta nel suo ruolo più sotto-traccia ed elegantemente bruciante). Nel film, ciò che può apparire immorale per il singolo, o per la società benpensante e accusatrice dell’epoca, può non essere affatto immorale se agito per il bene della collettività. I molti, troppi alcolici che Elena (Alicia nella versione originale) consuma, le servono per dimenticare il processo di un padre amato ma rinnegato, ma anche per sopportare le prevedibili accuse della gente. In Elena si esprime il dramma della figlia inconsapevole di un nazista: qualunque scelta lei potrà fare in futuro, sarà condizionata dal giudizio severo dell’opinione pubblica. Ma nel film, le colpe dei padri non devono cadere sui figli; nell’universo di Hitchcock, Elena vive un calvario che si rivela catartico anche per lo spettatore. Elena sceglie di immergersi in una missione a tutto vantaggio del “suo” paese (sposando il nazista clandestino Alessio Sebastien, la donna si avvicina ai segreti della sua organizzazione eversiva), certo non solo per spirito d’abnegazione, ma perché influenzata dal silenzioso assenso apparentemente privo di tormento dell’amato Devlin. In questo ipnotico lungometraggio in cui i non detti contano molto, Hitchcock offre spazio al conflitto psicologico, alla gelosia che leggiamo negli sguardi di Sebastien quando scopre Alicia e Devlin baciarsi nei pressi della cantina, ma soprattutto nelle espressioni allusive che contraddistinguono il rapporto tra i due. Tanto è smaniosa e passionale lei, quanto si mostra trattenuto e “pratico” lui. Per questo, in qualche modo, il loro sentimento e il loro rapporto sopravviveranno anche quando tutto sembrerà pregiudicato. E’ presente in Notorius il tema del conflitto edipico che ritornerà nella cinematografia successiva del regista: la madre di Alessio è una figura invadente e imperiosa di cui il figlio lamenta le interferenze nella vita amorosa.

Notorius
E la gelosia di Devlin che accetta, con il volto velatamente sdegnato di Grant, di vedere l’amata Elena tra le braccia di un altro uomo per non abdicare al senso del dovere, la dice lunga sul groviglio emotivo della situazione rappresentata. Hitchcock risolve in sapiente estetica le ambiguità e il nodo dei sentimenti. Con i suoi movimenti di macchina ci porta a cogliere quei dettagli che mettono ordine nel quadro delle priorità e chiariscono la condizione reale dei personaggi. Con il celeberrimo traveling che parte da una visione d’insieme del salone delle feste in casa Sebastien e arriva a posarsi sul dettaglio della chiave in mano di Elena (è quella che serve per aprire la porta della cantina misteriosa), il regista ci offre un esempio di focalizzazione che suggerisce come dietro la grande mascherata covino traiettorie inaspettate. Con la soggettive “appannate” di Elena in preda all’annebbiamento della vista per il veleno assimilato, ci accorgiamo che il nazista Sebastien e la madre stanno mettendo in pratica l’ennesimo delitto “nascosto” dentro le pareti-lager dell’insospettabile borghesia tedesca. Con il finale in cui Devlin irrompe nella casa di Sebastien, Hitchcock completa e perfeziona quel “processo” con cui il film aveva preso avvio e passa in rassegna i suoi protagonisti dividendo tra colpevoli e innocenti. Devlin, figura vicaria del regista, aveva fatto la sua apparizione di schiena durante una festa in casa di Elena e, come una figura fuoriuscita dall’ombra, dal lato rimosso dell’ufficialità dei pensieri, si porta invece salvifico a liberare Elena da quel fatale incatenamento che l’amore e l’abnegazione le avevano imposto nella scelta di una missione rivelatasi suicida. Non ci sarà posto per Sebastien sull’auto che parte portando via Elena e Devlin. Questi dovrà tornare dai suoi colleghi aguzzini che vorranno da lui chiarimenti sul misterioso e sospetto allontanamento della moglie tra le braccia di un altro uomo. In un finale teso e disperato, la porta della tetra abitazione che si chiude inglobando Sebastien è l’eco di un’impietosità granitica che riproduce con toni solenni l’austero verdetto sul proprio operato sancito dai nazisti, pronti a condannare e a disfarsi di Sebastien, così come di ogni figura debole e di ogni tassello che ostacoli il passo dell’agghiacciante moloch totalitario. Decisamente più “glamour” in una luce rivitalizzata, il ruolo che Hitchcock affida a Grant in Caccia al ladro (1955).

Caccia al Ladro
Nascosto (ma non troppo) in Costa Azzurra
John Robie detto “Il gatto” e’ un celebre ladro di gioielli che ha pagato il suo conto con la giustizia prima della guerra, collaborando con la Resistenza francese. Ritiratosi a vita privata in Costa azzurra, è richiamato all’ordine perché qualcuno ha ripreso a commettere furti seminando il sospetto di un suo ritorno sulla scena del delitto. Robie si mette al lavoro per scoprire e acciuffare il vero colpevole, finendo per essere più volte scambiato come l’autore dei furti. Considerato come “lo champagne di Alfred Hitchcock”, Caccia al ladro è insieme un giallo e una commedia sentimentale, con un equilibrio delle due dimensioni che raramente appare così risolto. Appena dopo La finestra sul cortile, Hitchcock ritrova la venticinquenne Grace Kelly e le offre il ruolo dell’americana in vacanza con la mamma, presto affascinata dal ladro brizzolato Cary Grant. Questi, figura irresistibile di gaglioffo elegante e redento, è un individuo da romanzo sulla cui identità pare bello alla giovane non credere sino in fondo. I divi, qui al loro meglio, sono umanizzati e resi “principi della porta accanto”, in sequenze in cui li vediamo mangiare con le mani e ammiccare a più non posso. Splendente sul piano visivo, Caccia al ladro possiede tutta l’eleganza dei loro interpreti, che restituiscono una complicità dovuta probabilmente anche all’intesa fuori dal set. Robert Burks ricevette l’oscar per la fotografia in vistavision, grazie alle riprese dall’alto in elicottero della Costa azzurra (una novità assoluta per l’epoca) e in generale per l’attenzione cromatica splendente, tangibile nelle sequenze del mercato e del ballo in maschera. Più contenuto rispetto al successivo e ultimo film con Grant (Intrigo internazionale), è un film pieno di dettagli e paradigmatico nel disegno dei caratteri e dei tipi psicologi: dietro l’algida Francine interpretata da Grace Kelly si cela colei che, con un cuore caldo, fa il primo passo, bacia Robie e sovverte il finale della vicenda; dietro Robie-Grant, dietro la sua figura di splendente don Giovanni americano in missione, si coglie un animo intrepido non allineato con le ingiustizie. I doppi sensi e la luminescenza visiva sottolineano l’aspetto di “champagne” di un film che ha il pregio di restituire una fotografia dei tempi, con humour, partecipazione e complicità. Il principe Ranieri se ne accorse e rubò la scena a “il gatto”.

Caccia al ladro
Tra le statue dei presidenti
Intrigo internazionale, ultima collaborazione tra Hitchcock e Grant è, prima de Gli uccelli (1963), un’opera aperta e enigmatica, i cui echi, negli anni a venire, si lasceranno avvertire non soltanto nella cinematografia di spionaggio che vede ancora oggi come capostipite l’inossidabile James Bond, ma soprattutto nella plasticità scenografica iper-reale e nella disinvoltura narrativa del nuovo cinema hollywoodiano che seguirà. La singolarità del film è da leggere a più livelli. Anzitutto, come convenivano il regista e Truffaut nel loro celebre libro-intervista, questo film è la sintesi dell’Hitchcock americano.
Con la particolarità che per dare una summa del suo lavoro il cineasta lascia momentaneamente da parte – seppure non del tutto – i toni sepolcrali e claustrofobici delle opere appena precedenti (Il ladro, La donna che visse due volte) e che riemergeranno di lì a breve (Psycho, Gli uccelli, Marnie), senza contraddirne perciò la profondità e la resa espressiva, ma concede al suo spettatore la chance di inserirsi nella vicenda dell’uomo d’affari Roger Thornill come se si trattasse di un qualunque film brillante cucito sullo statuto divistico di Cary Grant. Più che mai il film si propone come una frenetica sarabanda avventurosa e la presenza annunciata del divo nel casting ne prefigura la vocazione icastica. Ma sin da subito, cioè dai titoli di testa che scorrono come grandine sulla facciata “a specchio” di un grattacielo (un’esplosione di linee voluta da Saul Bass in sincrono con i rimbalzi simbolici di un Bernard Hermann sfarzoso e teso), siamo messi in guardia sul vortice di indecifrabilità cui ci condurrà il racconto, in piena continuità con il precedente film di Hitchcock, La donna che visse due volte, che sin dai titoli di testa sempre curati da Bass rendeva omaggio alle atmosfere e ai contenuti della vicenda. “Intrigo internazionale” è il ritorno al cinema degli inseguimenti, della suspense concitata, degli imprevisti che portano il personaggio verso nuove e inattese direzioni; nella stratificazione delle sue valenze, il film disegna un percorso votato al disvelamento della verità e dell’identità, in uno scenario di accumulazione narrativa che sembra contraddire la linearità compositiva dei film appartenenti al periodo inglese. Il nuovo film appare fortemente influenzato dalle suggestioni simboliche della produzione moderna, pur essendo, per l’appunto, un film d’avventure, tutto azione ed inseguimenti.

Alfred Hitchcock e Kim Novak sul set de La Donna che Visse due volte
E’ nella struttura roboante e sovra-tono dell’opera che si esprime la sua prestanza, la baldanza figurativa di un lavoro compiuto e ricco, affascinante e insieme “facile”, come richiede la legge dello spettatore a cui il regista si è sempre affidato per giudicare la riuscita di un film. Il protagonista, Roger Thornill, è l’uomo intraprendente e disinvolto, l’ambasciatore di una vita apparentemente rosea votata alla prevedibilità di un successo professionale senza smagliature. Nella vita (professionale e domestica, perché non sembra esserci molta differenza tra le due dimensioni) ha la qualifica di pubblicitario, dunque è un uomo alla moda, con i vestiti mai sgualciti, con la segretaria tuttofare che gli ricorda ogni mattina i suoi impegni mondani e di lavoro, mentre ogni appuntamento d’affari si svolge in un locale bene di New York. L’oppressione e il senso d’imprigionamento sono pur sempre dietro l’angolo, benché temporaneamente esorcizzati dall’ironia di Thornill e dall’inappuntabile “self control” che ricacciano le paure nel limbo di una sospensione coatta. L’impiego di Cary Grant in qualità di attore protagonista, pertanto, rende questa volta pienamente conto della scelta di Hitchcock di lasciar identificare lo spettatore con uno dei suoi interpreti-feticcio, il cui aplomb permette di gustare come particolarmente esilaranti o paradossali le situazioni affrontate nel corso della vicenda.

Intrigo Internazionale
Così è nel rapporto compiacente con una madre che tratta il figlio cinquantenne Roger senza avere minimamente coscienza della gravità delle situazioni in cui una persona come lui possa accidentalmente trovarsi. Tra i quattro film della collaborazione tra Hitchcock e Grant, questo è sicuramente il film più aereo e imprevedibile, più moderno e pirandelliano. La vicenda prende le mosse da uno scambio di persona. Roger Thornill, il nostro protagonista, viene sequestrato dagli uomini di un’organizzazione spionistica che lo credono un agente federale: George Kaplan. Roger viene scortato in una residenza, al cui ingresso si legge il nome “Towsend”. Colui che si presenta come il padrone di casa (Phillip Van Damm, che è in realtà il capo dell’organizzazione) interroga Roger ma non si convince della sua identità, continuandolo a credere Kaplan. Roger viene ubriacato a forza, caricato su un’auto e spinto verso una morte certa. Salvato da un guardiaboschi, Roger si mette sulle tracce del vero Towsend al palazzo delle Nazioni Unite, e gli mostra una foto del falso Towsend nella speranza che il diplomatico lo identifichi. Prima che possa rispondere, Towsend cade in terra con un pugnale piantato nella schiena. Roger cerca di soccorrerlo ma si ritrova con l’arma del delitto in mano. La gente pensa che lui sia l’assassino. Roger è costretto alla fuga. In un ufficio governativo vengono chiariti alcuni aspetti della vicenda. In realtà l’agente federale Kaplan è un nome fantasma, ideato dall’FBI per depistare l’organizzazione di Van Damm. Il controspionaggio americano è anzi del parere che per motivi di sicurezza la polizia non debba intervenire in nessun caso a tutela di Thornill. Questi se la dovrà cavare da solo. In realtà l’FBI gli metterà alle calcagna la bella agente in incognito Eve Kendall (Eve Marie Saint), che sul treno per Chicago lo aiuterà a sfuggire il controllo della polizia. In questo quadro, Hitchcock, innestando il gioco dei fraintendimenti, amplifica la condizione di assoluta precarietà delle relazioni; l’intrigo spionistico, confidando più che in altre occasioni sull’effetto di sorpresa, gli serve per portare al parossismo la frenesia di una vita in perpetuo movimento, che si sorregge su di una serie di convenzioni e di illusioni. Molte cose, nell’esistenza “leggera” e scanzonata dell’uomo moderno, non sembrano avere troppo senso, paiono tracce di un abbandono all’accidentalità delle evenienze. Esemplare di questa dimensione ci sembra proprio l’incontro tra Roger e Eve sul treno per Chicago. In qualità di spettatori, noi non sappiamo perché la donna salvi Roger dalla polizia, ugualmente non possiamo credere, di primo acchito, in un colpo di fulmine. Quando, nel vagone ristorante, Eve dimostra di sapere che l’uomo è ricercato dalla polizia per l’omicidio delle Nazioni Unite, Roger sente di avere trovato un appiglio nel vortice di indecifrabilità in cui si è sfortunatamente cacciato; eppure, non conosce nulla di questa donna, la quale nel corso della vicenda cambierà per due volte identità dinanzi ai suoi occhi.

La Donna che Visse due Volte
Come in La donna che visse due volte, l’identità pare dispersa nei mille travestimenti assunti dalle persone per sfuggire alla propria precarietà psichica, ma in “Intrigo internazionale” il disvelamento sembra un percorso sinuoso e protratto al termine del quale si scopre soltanto che la verità poggia su un’ennesima illusione (e il film si conclude con la celebre ellissi che trasporta la coppia dalla minacciosità dei monti Rushmore, alla non meno tortuosa pericolosità – per il personaggio hitchcockiano – della vita matrimoniale). Film-inseguimento, funambolico e sontuoso, lascia deambulare il personaggio nei grovigli di una teatralità minacciosa e allegorica, come in Io ti salverò, ma la sua enigmaticità questa volta non ha bisogno di simboli onirici per comunicare sgomento, bastandole le insidie di un reale incomprensibile anche se apparentemente luminoso (la sequenza, fatta di silenzi e di inquietanti attese, del biplano che dà una caccia spietata all’ignaro e indifeso Roger, è un esempio perfetto di “angoscia senza comunicazione”), da cui origina l’assoluta difficoltà nel rapportarsi con gli altri, fatta salva la possibilità di affidarsi al proprio istinto che però può trarre in inganno.

Io ti Salverò
In questo teatro di incontri sconvenienti, l’aplomb british di Thornill, modellato sul carisma di Cary Grant, viene sopraffatto dalla suadente “americanità” della fatale dark-lady; nei locali del vagone-ristorante, appena dopo aver “smascherato” Roger, la donna gli domanda cosa stia a indicare la vocale che compare nel marchio R. O. T. impresso sulla sua scatola di fiammiferi. La risposta è pronunciata con irreprensibile contegno: “Niente”. Subito dopo Eve si fa accendere una sigaretta dall’uomo, e, prima che lui ritiri la mano, gli trattiene il fuoco per qualche istante, bagnando di languore sensuale l’allusiva sequenza. Un ammiccamento compiacente scopre dunque la vocazione all’unione sessuale della donna, mentre una vocale inserita tra le iniziali di Thornill allude con impagabile leggerezza alla vacuità di una vita franta in una babele sempre ripetibile di identificazioni e di travestimenti. Una visione dell’esistenza, quella di Hitchcock, per nulla consolatoria, che getta un’ombra sulla luminosità delle relazioni: non si finisce mai di conoscere la donna e l’ottenimento dell’obiettivo desiderato, l’unione con l’altro sesso, si prefigura solo dopo avere affrontato varie traversie e smascheramenti, con l’esito talvolta beffardo che la realizzazione del desiderio, originando essa stessa da una situazione di rischio e di accidentalità, schiude la possibilità di una incertezza del vivere che si protrae. Sembra quasi che l’unica interazione reale tra l’uomo e la donna si verifichi solo quando entrambi sono d’accordo nel vivere coscientemente un’intesa di finzione, mentre, attorno, tutto trama contro la loro incolumità. Ed è un’ipotesi forte quella avanzata da Alfred Hitchcock con il suo eccellente film: che la coppia possa resistere e crescere quando collabori creativamente e si dedichi al gioco delle maschere.

Cary Grant e Alfred Hitchcok
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