Richard Linklater, omaggiato dal Centre Pompidou a dicembre 2019 (l’ultimo suo film uscito nelle sale è Che fine ha fatto Bernabette?), in poco più di venticinque anni ha realizzato lungometraggi tra loro diversissimi affermandosi come una delle figure più imprevedibili del cinema indipendente americano. L’esordio è con Slacker, uscito nelle sale nel 1991, che esprime sin da subito la vocazione “autoctona” del cineasta.

Slacker
Un lavoro interamente scritto, diretto e prodotto dal giovane cineasta, sperimentale nel senso pieno del termine, nonché realizzato con la viva collaborazione degli interpreti, con i protagonisti della cosiddetta “generazione X”; Linklater raccoglie la lezione realistica di André Bazin, la finzione quale abito rappresentativo del proprio tempo, messa in forma delle discrasie e dei frammenti di vita di alcuni slackers (giovani “scansafatiche”) che popolano il sottoborgo texano di Austin e che si raccontano interpretando gli umori di un’America non riconciliata. Questi ragazzi disillusi e incompresi raccontano improbabili contatti alieni durante la missione di Apollo e rammentano l’omicidio di JFK quale trauma “acquisito” della nuova generazione. Finalmente un film altro rispetto al rampantismo e all’estetismo d’inizio anni Novanta. Con questo esordio, Linklater fa la sua apparizione al Sundance Film Festival dove spopola con il Gran Premio della Giuria mentre il presidente Robert Redford incorona il giovane regista come l’alfiere di cineasti davvero interpreti del proprio tempo. L’esordio piace alla critica, e Linklater recupera il suo primo vero film, il precedente lungometraggio girato in super8 (It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books, del 1988), anch’esso autoprodotto e montato dallo stesso giovane regista, una primordiale riflessione sullo scorrere del tempo (tematica così comune nell’opera futura del cineasta) dove il protagonista è lo stesso regista, un giovane viaggiatore che sperimenta il viaggio come divagazione conoscitiva, come proposito per partecipare alla vita nei luoghi che conosce, negli spazi in cui ha la ventura di sostare. Linklater firma così il suo peregrinare disincantato sin dall’esordio con e dietro la macchina da presa. In contrapposizione ad un cinema di “giovani, carini e disoccupati”, quello di Linklater è un viaggio/percorso espressivo popolato da figure non omologate, davvero “dazed e confused”, come recita il titolo originale del terzo lungometraggio del regista-attore texano.

Richard Linklater
La vita è un sogno (traduzione forzata di “Dazed and confused”, 1993) è in primo luogo il brano di Jake Holmes meglio noto nella versione dei Led Zeppelin contenuto nel loro album d’esordio. L’espressione “dazed and confused” rintraccia con perfetta adesione l’atmosfera espressiva ed emotiva di un film che racconta una generazione attraverso l’indagine, istintiva e diretta, dei rapporti fra gli studenti e la gioventù delle High School e dei College americani nella metà degli anni Settanta. Utilizzando una formula che sarà comune al suo cinema del futuro, Linklater racconta una giornata di questi ragazzi come se il breve arco temporale racchiudesse l’orizzonte di una vita. In un cinema fatto di urgenza e di vita vissuta intensamente, con La vita è un sogno il regista aderisce alle intemperanze e agli umori di ragazzi che sanno vivere mostrando di volta in volta spavalderia e maturità, ebbrezza e autentica partecipazione al loro tempo, e realizza il primo “film caleidoscopio” di una lunga serie, in cui al centro della tavolozza emotiva del narratore saranno i caratteri ad emergere attraverso dialoghi spigliati e situazioni di efficace coinvolgimento.

Dazed and confused
Linklater diverrà il più apprezzato regista “indie” della sua generazione, e i suoi modelli sono il cinema americano degli anni Settanta, la controcultura e la musica rock, la letteratura americana del Novecento e una certa Nuovelle Vague. In questa prima fase della sua carriera, il suo lavoro è anche una rilettura e in La vita è un sogno viene omaggiato American graffiti il cui potenziale emotivo riverbera nella condizione esistenziale dei protagonisti, adolescenti in un momento critico della loro vita che per fortuna non hanno il Vietnam di fronte a loro ma orizzonti tutti da scrivere e decodificare, speranze e aspirazioni da condividere con il fiato in gola.
La vita è un sogno è da leggersi come il film più significativo del giovane autore; nei film successivi sarà davvero facile cogliere tratti dei personaggi ed imparentarli con quel clima emotivo e visionario incandescente. Il personaggio del venticinquenne americano Jessie, che incontra l’amore vero in Prima dell’alba (1995), è il traghettatore di umori e suggestioni di quell’esperienza di vita ed ebbrezza musicale che permettono di definirlo come un tardo adolescente in cerca di un’armonia con il mondo, mentre SubUrbia (1996) ribadisce, attraverso un testo di Eric Bogosian, quella disillusione che vuole essere soprattutto disincanto ma anche speranza di utopia di cui trabocca Prima dell’alba. Il regista, forte del suo sguardo interiore, va alla ricerca di un realismo che è sonda tra le aspettative e le immagini, ammantate di desiderio, delle persone. Sempre i suoi personaggi parlano molto, sognano ed esternano le loro passioni. In SubUrbia, tra fiumi di parole, alcool e molte sigarette, alcuni vagheggiano di lasciare la città in cerca di una prospettiva nuova e rigenerante, mentre altri alla fine si convincono che sia meglio restare. Quel parcheggio di un market gestito da due pakistani è in fondo un luogo tranquillizzante, come lo erano le auto parcheggiate ed in eterno sfavillante movimento nella notte di American graffiti. Un luogo perfetto e simbolico dove trastullarsi e vedere passare amarezze e disillusioni. Un luogo simbolo di una generazione senza ideali, ma anche il luogo della vita parcheggiata, rinviata, rimuginata, solo guardata dal di fuori con gli occhi di sognatori stanchi.

Tape
Linklater proviene diritto dalla generazione degli anni Novanta cresciuta sui video tapes e sulla cultura delle immagini. Ma a differenza di altri suoi contemporanei, egli può essere definito un regista della realtà e non invece un regista di immagini, un autore che cerca nella realtà quegli istanti capaci di rendere unica un’esistenza. Questo realismo, che sarebbe potuto piacere ai teorici della Nouvelle Vague, è accolto dal giovane regista indie di SubUrbia e Tape nella piena e manifesta consapevolezza dei propri mezzi espressivi. Se si guarda in prospettiva la sua filmografia, ci si accorge che ogni suo lavoro pare la riscrittura di una storia dove il mondo emotivo dei personaggi è in cangiante primo piano e si confronta con la dimensione del tempo, sia questo il tempo della loro vicenda individuale oppure il tempo storico inteso nello sconfinamento con la dimensione stratificata del sociale. E sul piano della concezione drammatica, quello di Linklater è un lavoro complesso che scivola tuttavia facilmente dinanzi agli occhi dello spettatore: mentre i suoi film sembrano conservare i requisiti aristotelici dell’unità di azione, di luogo e di tempo, i suoi lavori comprimono il racconto dei personaggi dentro un perimetro temporale fatto di un breve periodo (un giorno, una notte, una lunga passeggiata) ma i limiti divengono segno di una tensione, di uno squilibrio, di una richiesta di eccedenza che non è semplice “richiamo di illusione” come nel cinema mainstream.

Waking Life
In tutto il suo cinema, il sottofondo anarcoide dei personaggi alimenta percorsi esistenziali imprevedibili; una scena ben caratterizzante tale dimensione si fa strada in Newton boys, il lungometraggio del 1988 che racconta la vita leggendaria e piena di sogni di quattro rapinatori di banca, che sembrano proprio reduci da La vita è un sogno; dopo ottanta rapine andate a buon fine, il Texas dovrà attendersi il grande colpo al treno della banca federale. Come un regista della Nouvelle Vague, o come Martin Scorsese, Linklater collauda la sua freschezza espressiva immergendosi in una dimensione temporale solo apparentemente lontana dalla sua ma che diviene sentitamente una declinazione della “ricerca” del suo tempo più proprio. La frequentazione del cinema classico serve all’autore per ritrovare i suoi personaggi in forte tensione con il loro tempo storico, in cerca di una appartenenza ovverosia di una collisione che diviene rotta anarchica colorata di visionarietà. Alla ricerca del giusto mood, Linklater, a suo modo, opera delle sottili riscritture che non hanno molto da condividere con i calchi stralunati di tanti contemporanei (niente è più lontano, nel regista texano, dall’operazione-remake di Psycho attuata da Gus Van Sant). La riscrittura, al suo culmine, è manifestata nell’esperimento di Waking Life (2001) che è senz’altro uno stravagante “cartoon” (termine che riempirebbe d’ira il suo autore), ma che si offre in principal modo come un momento imprevedibile, di necessaria rottura e declinazione del vedere, un “contro-sguardo” che si atteggia afasicamente come una pittura psichedelica immersa nei sussulti e nelle nuances di un mondo visto ad occhi chiusi/spalancati, superficie iridescente dei sogni coatti di un personaggio che esprime l’inadeguatezza nello sfiorare il suo potenziale umano e visionario, a causa delle grandi paure e della pigrizia che contagia la società. Tramite deragliamenti, ribaltamenti prospettici, forzature e immagini “bigger than eye” con Waking Life Linklater segna la via di un cinema rischioso, in cui l’immagine è esplosione/implosione di un reale letteralmente ridisegnato attraverso uno sguardo arty dal sapore fortemente reattivo. E nella costante attenzione per temperature espressive davvero impegnative per chi guarda, l’autore si propone di sabotare dall’interno il cinema mainstream svuotandolo di senso, invitando al contempo lo spettatore ad una scelta e ad una visione più radicale, più profonda. Il cinema deve darsi come un’esperienza imprevedibile, esattamente come la psicoanalisi. Si propone come quell’imprevedibilità del vedere che è davvero un’“oscuro scrutare”, secondo quell’ossessione tematica che vedrà Linklater omaggiare nel 2006 il romanzo di Philip K. Dick nella descrizione di una “genesi” lontana dai clangori paranoici dei Terminators/Genesys tornati in voga, nel segno di una schizofrenia mentale e percettiva che ripercorrerà la sperimentazione estetica di Waking Life. Cinema come luogo fisico, tangibile, di una percezione sempre rimodulabile, immagine di una sperimentazione del vedere che ricolloca il cineasta e il suo più fedele spettatore nell’alveo prezioso degli artefici autentici della propria visione.

Boyhood
Esseri liberi di guardare, di vedere oltre la superficie più immediata del reale, è quanto ci invita a fare il cinema di Linklater, che asseconda e solletica le nostre passioni più intime e invita a condividere un sogno di rivincita, che al cinema significa anche ribaltamento di prospettive e sconfinamento del cinema “indie” in stili e modalità espressive appartenenti a generi e tendenze consacrati. Tutto il cinema può essere oggetto di riscrittura e riflessione, in un disegno di utopica e suggestiva ansia di condivisione. In questa direzione è da leggersi il comportamento dell’incontenibile Jack Black, inatteso maestro di musica in School of Rock (2003), piccolo grande film di Linklater sorta di Attimo fuggente prosciugato di sdolcinature e adrenalinizzato da emozionanti scosse musicali. La musica, come il cinema, supera le differenze sociali e permette adesione a sogni che riguardano i desideri più intimi.
E’ grazie alla trilogia interpretata e scritta assieme a Ethan Hawke e Julie Delpy (Prima dell’alba, Prima del tramonto, Prima di mezzanotte) e nell’apprezzatissimo Boyhood (2014) che emerge a chiare tinte una riflessione sul tempo e sulla vita che scorre, peraltro affiorante già a sprazzi in altri momenti della vicenda creativa del regista. Pur lontana da manierismi ed intellettualismi forzati (con l’eccezione evidente di Waking Life), la scrittura di Linklater ricerca nella rappresentazione di un tempo dilatato (per cosi dire, in continuità) la dimensione della vita che scorre, mentre il cinema e più in generale il mezzo artistico possono essere tramite per cogliere espressioni e segni, residui di un temporalità che è soprattutto temporaneità: i suoi personaggi portano sulla scena del presente interrogativi esistenziali che ci riguardano e che barcollano in traiettorie di senso baluginanti; il loro percorso non obbedisce alla priorità di una storia, di una vicenda dominante (cosa che sarebbe piaciuta al Wim Wenders de Lo stato delle cose), ma si basa ben più di quanto possa apparire di primo acchito sull’improvvisazione e la riscrittura dei testi attuata assieme agli interpreti, sui movimenti, le esitazioni e i ripensamenti modulati sull’asse simbolico-espressivo del vagabondaggio esistenziale. Ecco allora che la vita, piuttosto che la vicenda, dei personaggi della trilogia interpretata da Ethan Hawke e Julie Delpy, è soprattutto un fatto di passeggiate, di movimenti lenti e protratti, di salite e discese su treni e battelli, di chiacchierate e camminate, una vera “recherche” contemporanea di un tempo proprio, “contro-tempo” da prendersi libero e da viversi nel desiderio di esprimersi e conoscersi a fondo, nell’ebbrezza di un respiro irrinunciabilmente condiviso, che risolleva le nostre vite e diviene elemento che rimette in gioco nuove e vecchie ipotesi (di esistenza e di racconto).

School of rock
Con la leggerezza di un Rohmer, Prima dell’alba è la registrazione di un movimento che ad ogni nuova visione si riattiva e lascia emergere il disvelamento, sensibilissimo, di un mondo di emozioni. Una registrazione che, per paradosso, testimonia la genesi di un coinvolgimento intimo a sua volta, per definizione, mai definitivo. E in questa evidenza emerge il più grande omaggio di Linklater a Rohmer e ad un certo cinema della Nouvelle Vague. Il sentito e caloroso avvio di una narrazione che riflette l’unicità di sguardo di una lezione che nel rapporto con il reale lo riqualifica e lo rende vicenda assoluta, ipotesi da cui ripartire per guardare dentro al proprio tempo. L’incontro naturalissimo e il peregrinare di Jessie e Celine, che si ameranno, lui squattrinato vagabondo americano lei studentessa universitaria francese, entrambi innamorati anche della promessa che l’altro sembra poter restituire, sarà il veicolo di una lezione espressiva fatta di non detti, di sospensioni, dove interessano soprattutto i personaggi, il desiderio di partecipazione alla vita che si colora di sogno e afferma il valore dell’utopia nell’attimo in cui due giovani lontani geograficamente e culturalmente si ritrovano fatalmente attratti e dunque irrinunciabili l’uno per l’altro. La vicenda intima che li riguarda in realtà coinvolge principalmente lo spettatore perché scorre come fortemente avvinta al senso del tempo come mutamento, come trasformazione. Nel lavoro di riscrittura con i due affiatati mattatori, Linklater ha buon gioco nel sottrarre la rappresentazione da sensazioni di meccanicità, così che i due sequel di Prima dell’alba paiono a tutti gli effetti come le appendici di un percorso esistenziale, non premeditato.
Una lezione di cinema moderno, dai sapori esistenziali, che Linklater ha avuto il merito di riprendere e condensare in Boywood (2014), un film ben presto apprezzato dalla critica, vera consacrazione d’autore per il caparbio regista “indie”. Mentre la triologia “europea” univa Europa e America in un sogno di condivisione di umori, amori, aspettative, delusioni e rancori, Boyhood, nella sua oltremodo evidente dimensione sperimentale, omaggia però in primo luogo l’estetica del New American Cinema, tanto che ad un certo punto il film sembra un omaggio allo scorsesiano Alice non abita più qui.
Linklater opera sottotraccia, per quello che è probabilmente il suo film più ambizioso. L’autore, che ancora una volta scrive e riscrive il suo film con i suoi interpreti (la lezione europea è chiarissima), porta in scena due genitori separati in dodici anni effettivi di riprese, dal 2001 al 2013, in un film che davvero più che mai “racconta la vita”, e che si presenta come una specie di esperimento antropologico al cinema, con gli attori ripresi in un lungo arco di tempo e che quindi si trasformano, crescono ed invecchiano nel tempo della rappresentazione. In quello che rimane un film originalissimo, l’autore gioca, per così dire, per sottrazione, ed evita di caricare tratti espressivi e situazioni. I volti cambiano senza che si renda necessario sottolineare alcun salto di tempo, e l’evoluzione delle situazioni si snoda in un presente sempre mutevole, cangiante, che interpreta con disincanto e partecipazione sorprendente l’impercettibile segreto dell’esistenza quotidiana, in una sorta di “romanzo familiare” che in fondo, se omaggia Alice non abita più qui, va anche oltre quelle situazioni, e ci descrive il viaggio esistenziale di un giovane nell’America degli ultimi anni, in un’epoca in cui non tutto sembra essere a portata di mano come presenterebbe il sogno di Forrest Gump.
Un film sulla crescita, in definitiva; il film che Linklater aveva bisogno di realizzare per mostrare che il cinema registra il cambiamento ma dei cambiamenti dell’esistenza è magnifica espressione; un film la cui riflessione sottile è nel suo “contro-tempo” più significativo: occorre resistere alle ferite del tempo per cercare quello sguardo, quel tempo proprio, quell’armonia che è anche un fatto, in senso lato, artistico. “Cosa rende unica la musica dei Beatles?”, suggerisce il padre (l’immancabile Ethan Hawke). La loro sintonia….
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