Era il 29 novembre del 2010, esattamente 10 anni fa, quando Mario Monicelli poneva fine alla sua esistenza gettandosi dalla finestra dell’ospedale in cui era ricoverato, all’età di 95 anni, decidendo lucidamente di abbracciare quella morte che lo stava iniziando a corteggiare e dalla quale il regista non aveva intenzione di farsi prendere in contropiede. Non a caso durante un’intervista, pochi anni prima, insofferente alle ipocrisie parentali e ai rapporti di dipendenza e subordinazione, aveva dichiarato: “Non aspetterò la mia morte in un letto d’ospedale, con i parenti che mi portano la minestrina”. Da sempre lontano dalla retorica dei discorsi e delle commemorazioni, aveva appena rifiutato la Legion d’Onore.
Anche il padre Tomaso, importante critico teatrale e giornalista durante l’Italia oppressa dal fascismo, nel 1946, in seguito a una delusione professionale, si era suicidato.
Monicelli era cresciuto in un clima simile a quello di un altro grande regista suo coetaneo, Sergio Leone, anche lui figlio di intellettuali costretti, durante il regime, a non poter firmare le loro opere.
Candidato 5 volte al premio Oscar, nonostante più di 70 film e i tanti successi internazionali manteneva l’onestà e la modestia che non gli facevano andare a genio la definizione di “maestro”, accompagnate a una personalità determinata che gli aveva permesso di scoprire grandi talenti del cinema e di dirigere divi affermati, perchè, come era solito dire: un regista deve dare l’idea di sapere sempre quello che vuole, deve comandare e dirigere, essere un punto di riferimento per tutti, senza esitazioni.
Uomo dalla cultura letteraria raffinata, avrebbe voluto diventare un romanziere, come i suoi amati Flaubert e Dostoevskij, oppure musicista, insomma un artista che opera da solo, davanti a una pagina o uno spartito bianco, ma si era dovuto accontentare del talento cinematografico avuto in sorte. Di certo è che soprattutto grazie alle sue innumerevoli letture gli è stato possibile stigmatizzare quel genere unico, chiamato commedia all’italiana, che fa sorridere in modo amaro, affrontando tematiche sociali o intimiste dolorose.
Compagno di giovinezza di Riccardo Freda e Alberto Lattuada, iniziò la carriera cinematografica facendo l’assistente sui set: “il più miserabile degli assistenti, quello che comincia ad accendere la sigaretta al regista e lo aiuta a mettere il paltò”.
Dopo la fine della guerra, Monicelli iniziò ad affiancare l’esordiente Pietro Germi in qualità di aiuto regista, nel film Il testimone (1945). Il rapporto tra i due si trasformò presto in amicizia. Il sodalizio tra Monicelli (dall’animo malinconico e disincantato) e Stefano Vanzina – conosciuto al grande pubblico con lo pseudonimo di Steno (personalità ironica e dotata di spiccato senso dell’umorismo)– invece, nacque tra i tavolini dei bar nel centro della capitale. Entrambi erano proiettati verso la “commedia” nel senso più classico del termine, cioè quel genere, tipicamente italiano e di antichissima origine (dal greco komòs odè: rispettivamente baldoria e canto), che tutto unisce: amore, comicità, dramma.
La svolta artistica nella sua carriera avviene nel 1951 con la direzione del capolavoro Guardie e ladri. Il film, prodotto da Ponti e De Laurentiis, vede recitare insieme per la prima volta, su decisione di Monicelli, Totò e Aldo Fabrizi, due grandi personalità comiche che non era scontato si trovassero in sintonia. Sul set i due attori furono costretti ad interrompersi a causa delle risate che non riuscivano a trattenere. L’unico problema fu la scarsa vena mattiniera del comico napoletano. Totò infatti riteneva che al mattino non si può far ridere. Guardie e Ladri vinse la Palma d’Oro alla miglior sceneggiatura a Cannes nel 1951. Monicelli diresse ancora Totò e decise di affiancargli Alberto Sordi in Totò e i re di Roma.

I Soliti Ignoti
Nel 1955 tornò a dirigere Alberto Sordi, attore che amava molto, affiancato da Franca Valeri, in Un eroe dei nostri tempi. Il protagonista della pellicola è il prototipo di quel personaggio che renderà l’attore così popolare: un uomo debole, meschino e individualista. Una maschera poco attraente, soprattutto ad un pubblico straniero, che ne coglie principalmente gli aspetti miserevoli, mentre il pubblico italiano ne riesce a ridere perchè capace di identificazione con le debolezze e bassezze del personaggio, per il quale ha indulgenza.
Ma è con un nuovo capolavoro: I soliti ignoti che Monicelli enuncia uno dei suoi temi principali: l’amicizia virile dei protagonisti, che renderanno indimenticabili: “L’Armata Brancaleone”, “La Grande Guerra” e “Amici miei”. I soliti Ignoti si avvale dell’uso di una colonna sonora jazz realizzata da Piero Umiliani ed ispirata ad un duo di trombettisti noto come J&J, e stravolge i canoni della commedia inserendo la morte di uno dei protagonisti fin dall’inizio. La formula vincente è: Vittorio Gassman per la prima volta in un ruolo comico, Claudia Cardinale, Renato Salvatori e Marcello Mastroianni e, per ottenere il consenso dei produttori, un breve ma indimenticabile cameo di Totò, nei panni di un vecchio scassinatore.

Guardie e ladri di Steno
L’anno seguente Monicelli dà alla luce un altro indimenticabile capolavoro: La grande guerra (1959). Il regista desidera raccontare: “una guerra infame, sbagliata, fatta da 80% di analfabeti, messi in trincea a combattere contro degli austriaci”. E lo fa nel migliore dei modi, grazie a vaghi ricordi della prima infanzia, che lo riportano ad una padre che torna a casa con l’uniforme sudicia e sudata e trovando ispirazione nel racconto “I due amici” di Guy de Maupassant.
La performance attoriale del duo Sordi /Gassman fu di altissimo livello e valse ad entrambi il David di Donatello come miglior attore protagonista. All’attore romano fu conferito anche il Nastro d’argento. Inoltre, il film fu nominato agli Oscar nella categoria “miglior film straniero” e fu presentato a Venezia. Ci fu a Venezia, alla fine della proiezione, un applauso così lungo che lasciò tutti esterrefatti, e che costrinse l’organizzazione del festival ad assegnargli il Leone d’oro ex aequo con Il generale della Rovere di Roberto Rossellini che era, invece, il vincitore designato.

La Grande Guerra
Negli anni ’60 è Monicelli partecipa a svariati film “a episodi”. Girerà, infatti: Boccaccio ’70 (1962), Alta infedeltà (1964), Le fate (1966), Capriccio all’italiana (1968) a cui seguirono negli anni ’70 Le coppie (1970), Signore e signori, buonanotte (1976) e I nuovi mostri (1977).
Nel 1966 confezionò un altro capolavoro, tanto che il titolo del film è diventato una locuzione d’uso comune riconosciuta dai maggiori dizionari di lingua italiana: L’armata Brancaleone. Il film fu inizialmente osteggiato dai produttori, che trovavano l’idea di un eccentrico e sgangherato film in costume poco allettante, tanto che Monicelli decise di rinunciare al suo compenso chiedendo soltanto una percentuale sugli incassi. Parlando dell’Armata Brancaleone è inevitabile andare col pensiero alle opere letterarie di Miguel de Cervantes (Don Chisciotte della Mancia) e di Italo Calvino (Il cavaliere inesistente).

L’Armata Brancaleone
I successi di Monicelli sono così tanti e soprattutto così grandi che riesce perfino difficile parlare di tutti: nel 1968 esce La ragazza con la pistola, ed è proprio grazie al regista che Monica Vitti, allora ancora musa drammatica di Antonioni e poco nota al grande pubblico, riesce a rivelare quel cuore comico che la renderà regina e grande interprete della commedia italiana. Una curiosità: la parrucca che la Vitti indossa nel film era stata montata al contrario dalla costumista, ma quell’effetto eccentrico piacque al regista, che la volle pettinata a quel modo.

La ragazza con la pistola – set con il regista
Poi è la volta di Romanzo popolare (1974) nel quale spiccano le interpretazioni di Ornella Muti e Ugo Tognazzi. Sempre Tognazzi sarà protagonista di un’altra indimenticabile commedia: Amici Miei, insieme agli attori Gastone Moschin, Philippe Noiret, Duilio Del Prete e Adolfo Celi. Quest’oggi le bravate dei vecchi amici, schiaffo alla partenza dei treni compreso, fanno parte dell’immaginario collettivo, così come il termine “zingarate”, prima relegato al contesto fiorentino, è noto in tutta Italia.

Amici miei
Nel 1977 Monicelli diresse Un borghese piccolo piccolo dal romanzo di Vincenzo Cerami con Alberto Sordi, chiamato al secondo ruolo drammatico della sua carriera, nel quale l’attore conferma la versatilità delle sue doti.
Nel 1981 firma Il marchese del Grillo. Nel film Alberto Sordi interpreta un nobile arrogante e sornione, un decadente romano del primo ottocento. Una maschera maligna e irriverente che si prende gioco di tutti, persino del Papa. Indimenticabili le frasi “mi dispiace ma io so’ io, e voi nun siete un c…” – pluricitata e rimasta nell’uso collettivo, a dispregio meschino del volgo. Il film verrà presentato a Cannes e varrà a Monicelli l’Orso d’argento al festival Berlino del 1982.

Il Marchese del Grillo
Nel 1985 si cimenta sul piccolo schermo con Le due vite di Mattia Pascal (1985), in una versione cinematografica ed una televisiva. Proprio il 29 novembre il film televisivo, in una versione inedita e parzialmente restaurata, sarà trasmesso su Rai 5 alle ore 16.00 per commemorare il grande regista con una delle sue opere meno note, ma che vale assolutamente la pena riscoprire. L’anno successivo arriva un altro grande successo: Speriamo che sia femmina, un racconto al femminile, con Catherine Deneuve, Liv Ullmann, Stefania Sandrelli e Giuliana De Sio. Il regista affermerà che il problema del divismo sorge solo quando si tratta di dirigere un’unica attrice/attore, mentre la presenza di vari divi all’interno di uno stesso film può dare avvio a una gara di disponibilità per dimostrare che nessuno di loro si comporta in modo capriccioso. La sceneggiatura porta la firma di Monicelli, assieme a quelle della cara amica fraterna Suso Cecchi d’Amico, oltre a Leo Benvenuti, Piero de Bernardi e Tullio Pinelli, e vinse sia David di Donatello che il Nastro d’argento del 1986.

Speriamo che sia femmina
I picari (1987) è una bella pellicola in costume e otterrà successo senza raggiungere le vette di altri capolavori. Nel film figurano Enrico Montesano e Giancarlo Giannini come protagonisti, con un ruolo minore per Nino Manfredi.
Il 19 aprile 1988 Monicelli stava svolgendo dei sopralluoghi nella zona di Bracciano quando, sulla via del ritorno, ebbe un gravissimo incidente d’auto che gli provocò seri danni e una lunga infermità. Indomabile, si rimise dietro la cinepresa nel 1990 con Il male oscuro, scritto con l’aiuto di Suso Cecchi d’Amico e Tonino Guerra.
La vita del compositore Gioacchino Rossini, interpretato in gioventù da Sergio Castellitto e, successivamente, da Philippe Noiret, viene raccontata in Rossini! Rossini! (1991), nuovo successo del regista settantaseienne. Giorgio Gaberščik, meglio conosciuto come Gaber, fu scritturato per il ruolo minore di un impresario, nonostante la sua nota idiosincrasia nei confronti del mondo del cinema, che gli faceva definire i funzionari della Rai come sotto il livello della dignità umana. La sua performance fu tale che ricevette anche una candidatura al David di Donatello e lo stesso Monicelli ne lodò l’interpretazione, offrendogli un ruolo anche in Parenti Serpenti che Gaber, però rifiutò.
Il 1999 è l’anno della penultima pellicola di Monicelli: Panni sporchi, mentre l’ultima sarà Le rose nel deserto (2006) con Michele Placido aiuto regista ad affiancarlo. L’aiuto regista firmò una clausola per cui avrebbe dovuto concludere il film nel caso in cui fosse accaduto qualcosa a Monicelli, ma probabilmente dovette pentirsi di quella scelta, perchè il grand’uomo, pur ormai quasi cieco, tra urla e strepiti, non gli permise di prendere quasi mai il suo posto.

Le rose del deserto- set con il regista
L’anno prima del suo ultimo film, a novant’anni, Monicelli si era trasferito in un monolocale in via de’ Serpenti 29, al primo piano senza ascensore. Una scelta che aveva destato sgomento e preoccupazione nei suoi cari, ma che nasceva da una precisa e ferrea volontà di non lasciarsi andare, non farsi vincere dalla pigrizia, dall’ovvietà e financo dalla morte. Da ricordare sempre, tra le sue tante affermazioni irriverenti, anticonformiste e figlie di un pensiero lucido, laico e libero: “mai avvilirsi, mai rassegnarsi, sempre partecipare e lottare, combattere e protestare. Ci si può e ci si deve indignare sempre, anche dopo morti”.
E ancora: “Io non credo, non sono ateo anzi, credo ancora in Apollo, Marte, Venere la dea dell’amore, mi piace molto quel periodo meraviglioso in cui c’erano tutti questi dei, era una vita meravigliosa. Adesso con un dio solo, cattivo, che devi stare attento, ti deve punire, ci dobbiamo sempre raccomandare, salvaci, salvaci, da che me deve salvà? A me non me deve salvare da niente. M’ha messo al mondo, me c’ha messo lui al mondo e mo’ s’arrangi”.
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