A poche settimane dalle elezioni politiche del 2006 esce nella sale Il caimano, con cui Nanni Moretti riesce a stupire la critica e il pubblico, in primo luogo perché il film non è quello che ci si attende da un progetto a lungo annunciato e segretamente custodito. Non un trattato polemico. Non un meticoloso ricalco del cinema d’impegno civile che fu. Al posto di questi prototipi, un film atipico e sofisticato, composito, che si snoda su più livelli metaforici, da quello politico, a quello sociale, a quello che riguarda la condizione cinematografica italiana. Moretti, senza adombrare la sua posizione di intellettuale e di uomo, non trascura nemmeno qui l’aspetto autobiografico, che si può leggere ancora una volta come esito di una posizione etica rigorosa e manifesta.
Dalla fase autarchica degli esordi, a quella delle maschere trasparenti indossate da Michele Apicella e Don Giulio, si passò con Caro diario e Aprile ad una scrittura diaristica volta alla ricerca di modalità realizzative leggere e insieme sperimentali, attente agli aspetti realistici, alle divagazioni minuziosamente spontanee del rapporto tra l’individuo con i suoi valori e il mondo. Quindi, con La stanza del figlio e Il caimano, il viaggio di Moretti nella società del suo tempo si sarebbe affinato con note nuove, con un dialogo intimo doloroso e, nel caso del film del 2006, maggiormente allegorico, allorquando, nel racconto che sulla sua superficie narrativa si incentra sulla rappresentazione di Silvio Berlusconi, il regista di Brunico si ritaglia il ruolo di un attore che in un primo momento rinuncia ad interpretare quel volto e quella maschera indossati abitualmente dall’imperatore delle televisioni private.
Ne Il caimano, mettendosi per la prima volta almeno parzialmente da parte come attore di un suo film, Moretti lascia invece spazio ad un altro protagonista, il singolare regista di film di genere Bruno Bonomo, precursore italiano di quel cinema delle contaminazioni caro a Quentin Tarantino. Questi porta il volto e le movenze da guitto straordinariamente sventurato cucite sui tratti di Silvio Orlando in uno dei suoi ruoli più interessanti. Bruno, che dirige un’azienda di b-movies sul collasso economico, ci viene presentato mentre è sollecitato dai creditori, assillato da vecchie glorie come l’anziano regista Franco Caspio interpretato da Giuliano Montaldo che, sempre invitato ad eventi mondani a differenza di quanto accade al trascurato Bruno, non comprende i nuovi scenari di precarietà. Bruno, sposato con Paola (Margherita Buy), ha poi una vita familiare in attesa di una svolta difficile, con i due figli bambini che non accettano la separazione in atto dei loro genitori, al cui cospetto Bruno si affanna per recar loro un’immagine resistente di una coppia di coniugi in realtà soltanto pallido ricordo di momenti felici. Al cospetto di Bruno, indebitato e pronto ad essere lasciato da Paola, si presenta, durante un omaggio estivo del suo cult-flop Cataratte, la giovane Teresa (Jasmine Trinca), che gli affida una sceneggiatura per un film su Silvio Berlusconi che lui dirà di apprezzare anche se non l’avrà letta troppo a fondo (e quando capisce chi si tratta di una sceneggiatura su Berlusconi si lascia prendere dallo sconforto come sa ben fare Silvio Orlando, finendo per tamponare la vettura di fronte). Cataratte, opera Trash che prende avvio con un matrimonio tra rivoluzionari celebrato da Paolo Virzì, è presentato durante un’arena estiva alla presenza del critico Tatti Sanguineti che ne tesse gli elogi. E’ quanto Bruno è cinematograficamente in grado di realizzare: un’opera anarcoide e libera. Ed è un cambiamento di segno nel cinema morettiano, che non ha più bisogno di far emergere dalla sala Davide Cantarelli indispettito perché il film non potrà essere compreso dalla casalinga di Voghera. Negli anni Duemila del tardo cinema trash para-tarantiniano non è allora il significato a disturbare ma la provocazione di donne ferine pronte a macchiarsi di sangue come accade in Kill Bill. Mentre lo sventurato e imperterrito regista trash è questa volta l’incauto depositario della possibilità che un film con un significato politico di denuncia esca nelle sale, in un momento in cui regna l’immobilismo e mancando il coraggio e la denuncia tanto in ciò che resta del cinema d’autore quanto nelle frange del cinema di genere.
Bruno viene allora accolto come il protagonista di possibile riscatto: l’individuo non intellettuale e anche pieno di pregiudizi che però si butta in progetti perché potrebbe essere la volta buona oppure perché l’amore incondizionato per la professione del cinema è l’elemento che può fare la differenza. Lo stesso Bruno sembra ammettere che lui, e i registi comunemente considerati autori, fanno lo stesso lavoro ma in due modi diversi. E Bruno difende l’autonomia, il diritto a realizzare progetti con piglio artigianale, avendo confessato ad un incredulo Giuliano Montaldo che Il ritorno di Cristoforo Colombo potrà essere realizzato non più con grandi mezzi ma con delle caravelle in miniatura. Il caimano è il titolo del progetto che la giovane Teresa sente di dover realizzare come un dovere morale. Lei è un prototipo del personaggio morettiano che lo stesso Nanni Moretti in carne ed ossa riconosce come “antipatica”, ovverosia interessante. Nanni Moretti non ha mai fatto segreto di amare i giovani caratterizzati dalla fierezza morale, e lui stesso sembra cedere elegantemente il posto a Jasmine Trinca, giovane di schietta genuinità che con il volto di Teresa porta in luce una parte del personaggio morettiano, l’indole che non si piega e lo stupore del giovane che si indigna ma è in grado di conservare piena lucidità, come ad esempio quando, davanti alle esternazioni di Berlusconi pronto a bollare l’eurodeputato Martin Schultz come adatto al ruolo di kapò, Teresa riconosce a Bruno come “il caimano” abbia una singolare concezione di ironia (la stessa che Berlusconi vanterebbe di aver manifestato nelle sue esternazioni sconsiderate). Se Bruno Bonomo è il paladino di un cinema ancora possibile, questa via è però minata dal sistema produttivo, che si fa specchio delle distorsioni che la società berlusconiana promette e mantiene.
La struttura meta-cinematografica de Il caimano riflette il ruolo del cinema nel rappresentare l’identità sociale di un paese, mentre il tema della crisi si dipana dal tradizionale nucleo familiare, a quello sulla possibilità di realizzare un film sulla figura di Silvio Berlusconi, per arrivare alla riflessione sulla difficile condizione del produttore nell’industria cinematografica. Se il cinema di Moretti si propone come una cura nella possibilità di rivendicare l’emergenza qualitativa di uno sguardo schiettamente diretto allo spettatore e nondimeno stratificato nel suo svilupparsi a più livelli sul problema rappresentato, questa volta l’attore Moretti ritorna in campo ad assolvere quel ruolo scomodo che un vanesio Michele Placido ad un certo punto decide di non poter portare più in scena a causa di sopraggiunti impegni e lasciando il vecchio amico Bruno in un clamoroso cul de sac – con la produzione che potrebbe ritirarsi venendo a sapere che il film non potrà contare sulla presenza di un attore noto. Sarà allora proprio Nanni Moretti, non più Michele Apicella, non più don Giulio, a diventare Silvio Berlusconi nel ruolo che infiamma il processo con cui si conclude il film e trasforma il possibile duello Moretti-Berlusconi in una tensione dialettica e allegorica declinata in una trasformazione che possiamo mettere a fianco di quella del protagonista di Sogni d’oro nel lupo mannaro. Laddove, nel film del 1981, la dimensione onirica autorizzava lo sconfinamento nel registro immaginario, anche qui succede qualcosa di altrettanto visionario, sul cui sfondo si mobilita il popolo delle bombe in un rigurgito di terrorismo dalla densità paurosamente sinistra, pronta a rievocare gli umori robusti del cinema d’impegno civile che sino a questo punto era rimasto un punto di riferimento più teorico che espressivo nelle pagine de Il caimano.
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