La stanza del figlio, che usci’ nelle sale italiane esattamente vent’anni fa, sembra quasi un film pensato da Nanni moretti in contrasto con il precedente Aprile – episodio di indolenza fiduciosa che celebrava la nascita del figlio Pietro e insieme il bisogno dj affermare il proprio essere cittadini liberi di partecipare alla vittoria elettorale della sinistra nel 1996. Ma il contrasto rappresentato da La stanza del figlio è soprattutto a livello formale, perché dopo la leggerezza di un film volutamente distante da una strutturazione rigida come Aprile, il nuovo lavoro si presenta con la compostezza del classico ed affonda in tematiche come la fine della psicoanalisi almeno nella sua forma più ortodossa, evocando il tramonto di un certo modo di intendere il percorso metaforico come via di cura.
Quando nel 2001 La stanza del figlio vince la Palma d’oro, sono trascorsi ventitré anni dalla precedente analoga affermazione per un film italiano (L’albero degli zoccoli, 1978, per la regia di Ermanno Olmi), e il successo del nuovo film di Moretti è accolto come l’espressione più pensata e a lungo preparata di un autore che i francesi avevano già premiato per la regia di Caro diario. Nel raccontare lo stato di persone costrette a cambiare pagina, giunte a un momento di grave empasse, da sempre Moretti si affida all’ironia che gli permette di alleggerire la rappresentazione di quel dolore che accomuna il sessantottino di Ecce Bombo, al deputato comunista di Palombella rossa e a Don Giulio. Ma con La stanza del figlio, capita qualcosa che non sembra più sottoponibile in maniera immediata all’ironia. Il dolore lacerante dello psicoanalista Giovanni Sermonti nel film di Moretti è un aspetto che arriva come un fendente e non lascia spazio alla ricomposizione della presunta serenità di una famiglia che trova nella moglie Paola (Laura Morante) e nella figlia Irene (Jasmine Trinca), elementi di somiglianza con il passato cinematografico dell’autore ma anche anticipazioni delle nevrosi e delle tensioni che caratterizzeranno futuri personaggi vagolanti nel vuoto, come il produttore e la regista de Il caimano, il papa di Habemus papam e la regista di Mia madre.
Ne La stanza del figlio, film doloroso in cui Nanni Moretti è ancora una volta l’interprete al centro della riflessione sullo sfaldarsi del senso, egli è anche per un’ultima volta il personaggio principale attorno a cui si articolano i momenti del racconto; sedimento e insieme preludio di una filmografia in cui i corpi non corrono armonicamente come nei ricordi del padre che si rivede felicemente a fianco del figlio scomparso in quella corsa tra il viale che è anche uno dei momenti più intensi de La stanza del figlio, ma esitano e si affannano in percorsi di delusione e nevrastenia (la disperata sequenza in cui, ne Il caimano, il protagonista Bruno scopre la moglie in compagnia di un uomo al bar e si precipita in una corsa fino nella stanza di lei, quando le riduce in brandelli il maglione per lacerare quel ricordo bello che lo tiene legato al passato); labirinti di assenza del senso e percorsi di disorientamento, come l’afasia del papa in Habemus papam o lo stato emotivo della regista in grave apprensione per la madre malata in Mia madre. Il dolore che squassa la vita dello psicoanalista Giovanni ne La stanza del figlio, si pone come qualcosa che ritroviamo a sprazzi in momenti di una filmografia in cui il tormento divide e non trova facili terapie, e di fronte a una ferita così grande il personaggio sente e lascia trasparire di non credere più nel potere della parola incoraggiante: dinanzi al paziente che scopre di avere un tumore, Giovanni evita di rassicurarlo con la teoria diffusa e accreditata che il benessere psicologico aiuta a sconfiggere il cancro. Quel paziente è al centro dell’ossessione di Giovanni, che ritorna periodicamente sulla scena della mattina in cui il figlio perse la vita durante l’immersione subacquea: Giovanni aveva risposto ad un’emergenza del paziente, e adesso si immagina che, se quel giorno non fosse andato dal suo cliente, avrebbe convinto il figlio a rinunciare al suo appuntamento subacqueo.
Ma non basta dire che, manifestando toni raffreddati verso il paziente, Giovanni si vendichi di una colpa soltanto immaginaria: in questo momento avverte il disagio profondo, l’incapacità di ascoltare e di prendere le distanze dal dolore che dovrebbero essere gli elementi necessari alla psicoterapia. Ed è in questo punto che nel film si rivela la “crisi” come sfiducia in una pratica che Giovanni evidentemente ritiene non più funzionale, e da lui non più sostenibile: di fronte al dolore vissuto in prima persona la pretesa dell’uomo di scienza si sfalda. L’indagatore del quotidiano emotivo si trova allora in una gabbia, e la sequenza che lo vede al luna park, dentro la giostra ingabbiante, ne suggella il blocco e il calvario: immagine di una tortura che si ripete, inflessibile, con fissità. Il lutto è anche questo: stare dentro l’ossessione-prigione che non conosce vie d’uscita. Il lutto chiede anzi di essere assecondato, ripercorso. Almeno nella via ossessiva di Giovanni che a differenza della moglie e della figlia non si placa del suo sguardo tutto calato internamente alla sua ossessione, mentre Paola, soprattutto Paola, rintraccia quel filo immaginario che la conduce ad Arianna, la giovane con cui il figlio aveva iniziato una relazione. Paola-Laura Morante è la figura che resta a vicino a Giovanni pur avvertendo la distanza che li sta separando; lei cerca fuori di sé una via per dare senso al ricordo, all’immagine non statica del figlio. Giovanni invece si fissa su quella sequenza che telecomanda ad una televisione-specchio rimbalzante la sua ossessione avvitata sul ricordo di quella mattina. Arianna, la giovane a cui Giovanni non riesce a scrivere una lettera, viene allora avvicinata da Paola, e Paola-Laura Morante è ancora una volta il compendio immaginifico del rapporto tra Giovanni-Nanni-Michele con le donne, con quell’altro che ci compensa e scompensa, ma che in un film di transito come La stanza del figlio, incentrato sull’emergere del dolore luttuoso, finisce per assolvere al ruolo di compagna-amica, aperta alle sospensioni che il futuro offre. E’ Paola l’orizzonte di senso imprevedibile ma cautamente beneaugurante per una scena relazionale che ha bisogno di rimettersi in gioco, di ritrovare nell’accettazione e nello sguardo rivolto fuori dal proprio tormento un qualche tipo di orizzonte. L’accettazione del dolore comporta anche il riconoscimento del limite, e sappiamo come Moretti ci confronti nel suo cinema con questa espressione.
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