Come in Intrigo internazionale (1959) di Alfred Hitchcock, il protagonista di Quattro mosche di velluto grigio (1971), terzo lungometraggio di Dario Argento, vede il protagonista Roberto (Michel Brandon) convinto di avere accoltellato l’uomo con il volto mascherato che lo stava inseguendo, mentre qualcuno dal loggione di un teatro, dietro le fattezze di una maschera infantile che prelude ai bambolotti sinistri di Profondo rosso, lo fotografa ripetutamente ed è testimone del presunto delitto. D’ora innanzi Roberto si troverà a nascondere la sua condizione ambigua alla polizia, e la paura di venire scoperto verrà esasperata dall’angosciante ombra dell’assassino che continuerà a seminare morte. Roberto è vittima di un complotto e oggetto di persecuzioni: riceve per posta il documento d’identità dello strano individuo che egli è convinto di avere ucciso; durante una serata mondana, rintraccia le foto scattate dall’individuo con il volto di un fantoccio; il suo gatto viene trovato strangolato e lui stesso rischia di fare la stessa fine.
Roberto vive in sogno l’atto di decapitazione che prelude al finale del film: trauma spaventoso che egli sperimenta nel buio della mente, dando spazio alla dimensione dell’incubo, espressione di un percorso che ritrova l’individuo in un universo di simboli dal sapore autoriale quanto vistosamente cinematografico. All’interno di un racconto teso e attraversato dalla volontà di sovvertire le consuetudini realiste, Argento innesta alcuni sviluppi decisamente fantastici, senza tralasciare anche alcune parentesi comiche. Aspetti che anticipano, assieme alla fascinazione per aspetti di una realtà teatralizzata che si dipanano come tra i ripetuti sipari di una scena onirica, momenti di Profondo rosso.
Le incursioni nel fantastico rappresentano un deliberato omaggio a quel cinema amato e preferito da Argento – da Mario Bava a Fritz Lang passando per Jacques Tourneur – e diventano definizione di atmosfere notturne e buie, ma anche ricerca di un linguaggio che in quegli anni trova consonanze con maestri della narrazione visionaria. Vera incursione nel fantastico è la sequenza dell’omicidio della governante nel giardino pubblico, realizzata con un montaggio dagli echi tourneriani, che culmina con la fuga tra gli alberi e le pareti claustrofobiche di un parco cimiteriale. Improvvisamente la donna resta sola, il giorno diventa notte e i sudori freddi presagiscono l’arrivo della morte. L’incubo con decapitazione brutale ricorre poi nelle notti di Roberto dopo che questi ha assistito alle conversazioni durante la festa, ed è ancora un tratto fantastico che l’incubo rappresenti una premonizione, secondo una modalità che ritroveremo rinnovata in Tenebre, in Opera ma che fu già di Sergio Leone (Per qualche dollaro in più, C’era una volta il West).
Decisamente fantastica è anche l’incursione nel pensiero scientifico o in una pseudo-scientificità che rinvia al fantastico e ai suoi cliché, ma che si rivela costante attenzione per un mondo altro, con regole e artifici di provata tenuta archetipica. Così è per l’espediente con cui nel film, Roberto conosce finalmente il nome del vero assassino: attraverso l’esame della retina di Dalia, la sua amante uccisa dall’assassino, emerge l’immagine di quattro mosche come sul ciondolo portato dalla moglie. Nina, la donna insospettabile, è allora l’assassina della giovane Dalia e la sola responsabile dei delitti. La soluzione a effetto ribadisce il clima imprevedibile del thriller, e persino la confessione di Nina, armata di pistole e pronta ad uccidere Roberto – nella prova d’isteria della veterana Mismy Farmer – accentua una componente derealizzante che traduce la sensazione di smarrimento dinanzi a un delirio psicotico; smarrimento e straniamento come nel ralenti per la sequenza finale, che assiste la decapitazione di Nina con lirismo e trattenuta compassione. Come in un’immagine di Zabriskie Point (1970) ma con più dolore perché questa volta la vittima è una persona in carne ed ossa e non la società consumistica condannata dai personaggi di Antonioni.
Nina fu traumatizzata dal padre durante la prima giovinezza, il quale avrebbe preferito un maschio e la costrinse in un ospedale psichiatrico. Una volta conosciuto Roberto, Nina provò il desiderio di farlo soffrire, proprio come il padre fece soffrire lei. I fantasmi genitoriali, a lungo motivo di malessere per coppie immature, fanno la loro apparizione in questo film fantasmatico stilisticamente efficace, che per diversi motivi rappresenta un ulteriore sviluppo rispetto ai primi due film di Argento.
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