Due titoli irriducibili, da recuperare. Il primo è un film francese, À plein temps, presentato nella sezione Orizzonti e diretto da Éric Gravel, un regista alla sua seconda opera. Si tratta di un film che corre con la sicura intensità de Il regno di Rodrigo Sorogoyen, lascia senza fiato nel raccontare la quotidianità di Julie, cameriera separata in un hotel di lusso di Parigi che viaggia ogni giorno per ritrovare i due figli in un paesino di campagna, accuditi dalla vicina anziana che lamenta di non farcela e di chiamare i servizi sociali.
Il racconto, ispirandosi ai Dardenne e Ken Loach, offre una misura scalpitante, non perde colpi e credibilità, ci proietta nella vita metodica e organizzata di Julie i cui impegni arrivano al parossismo, corre a fare la spesa, cerca i regali di compleanno, si impegna e si ingarbuglia alla ricerca di un impiego più vicino alle sue aspettative, non rinuncia mai eppure il tempo la domina, la porta vicino al collasso. Grande bravura della protagonista, la quarantasettenne Laure Calamy (vincitrice nel 2021 del premio César quale migliore attrice per Antoinette dans les Cévennes), per un film che le sta addosso e la segue sin nel grande sciopero nazionale dei mezzi di trasporto dove salterà l’equilibrio delicato dei suoi tanti impegni. Gravel racconta un dramma privato che diviene specchio di un vivere comune attanagliato dalla ricerca del lavoro, mentre bugie, compromessi, desideri mai del tutto cancellati, sono le coloriture più intense di un racconto che arriva ad un inatteso lieto fine dove lo spettatore esulta ma ha anche modo di riflettere sulla condizione delle lavoratrici. Uno sguardo intenso, senza mediazioni, dove nessuno è sottratto alle proprie responsabilità.
Altro titolo da recuperare, probabilmente il vero gioiello nascosto di questa Mostra, tra i tanti film più celebrati e discussi, è Three minutes – A Lengthening di Bianca Stigter, straordinario esempio di documentario sulla ricostruzione della memoria storica, presentato come evento speciale fuori concorso alle Giornate degli Autori. La cineasta, di formazione storica, utilizza le riprese amatoriali effettuate da un polacco, David Kurtz, nel 1938, in breve viaggio in Europa per ritrovare la sua terra d’origine dopo che qualche anno prima aveva lasciato il suo paese per raggiungere gli Usa; dalle immagini cine-amatoriali, realizzate con una cinepresa Kodak 16mm, Stigter avvia una ricerca accuratissima sui volti, sulle tracce e il non immediatamente visibile di quel filmato ritrovato fortuitamente nel 2009 negli Stati Uniti prima della definitiva decomposizione della pellicola.
La regista realizza alta storiografia, ricostruendo, con la voce narrante di Helena Bonham Carter, quei tre minuti a colori, uniche immagini in movimento degli abitanti ebrei della cittadina polacca di Nasielsk prima dell’arrivo, di lì a poco, della furia nazista che raderà al suolo vite e luoghi. Il film inizia con la visione dei quei tre minuti, e poi riparte, in una lunga e coinvolgente revisione dei quegli attimi che diventano occasione per ripercorrere particolari ingranditi, riconoscere personaggi sullo sfondo, seguendo un metodo d’indagine che ipnotizza lo spettatore e che poche volte è stato utilizzato con tale nitidezza in un film per le sale cinematografiche. Si risale a quel piccolo e vivace gruppo di esseri umani, uomini, donne, ragazzini, i cui sguardi sono rivolti alla macchina da presa come qualcosa che non hanno mai veduto prima; volti, sorrisi e piccoli dispetti che rivivono attraverso il film della cineasta, autrice di un documentario davvero sorprendente, considerando che molto presto non ci sarà alcun superstite in grado di raccontare la Shoah. La passione della ricercatrice indica una direzione di cui il suo cinema si fa bandiera, quella di guardare le immagini che ci vengono dai paesi dilaniati dalle sopraffazioni con sguardo vigile e critico. Three minutes è il sorprendente esito di profondità di una cineasta che ci invita a rispolverare archivi e magazzini per cercare tracce di una storia nascosta. Un film sperimentale nel senso che trasforma in riflessione ciò che appare veloce nelle immagini di volti e corpi che esultano e giocano, si sofferma sui dettagli, sui vestiti, sulle ambientazioni realizzando un saggio di sorprendente ricerca storica su presenze scomparse che solo attraverso il film ritrovano la possibilità di non essere dimenticate.
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