Marc, interpretato da un David Hemmings chiamato a reincarnare la figura di un osservatore dopo il meta-cinema di Blow-up, è l’artista che intende conoscere il mondo e individuare i volti dei fantasmi che si aggirano nel corridoio altamente simbolico della paura. Carlo (Gabriele Lavia) invece è colui che sa e che non può parlare, ma è anche il figlio plagiato dalla madre, psichicamente disturbato da una donna che gli ha impedito una crescita sana. Gay e ipersensibile, Carlo non può ribellarsi a una madre che evidentemente non riesce a controllare. I suoi gusti sessuali, le frequentazioni di un giovane “effeminato”, testimoniano come egli continui a desiderare la figura paterna, oscurata e negata per amore della madre, mentre stare con un ragazzo che sembra una donna è l’espediente per fingere di non tradire la madre.
La tensione che si crea nel film è allora rivelatrice di processo di rimozione della verità, e ogni volta che Marc arriva a conoscere un po’ di più ecco pronto alle sue spalle un intervento destinato a far seminare le tracce. Sembra sempre che Carlo e sua madre siano dietro l’angolo pronti a nascondere ciò che Marc svela, ma anche a uccidere chi metta in forse l’oblio. “Dimenticare” è una parola che Helga Ulmann ripete come in trance durante il congresso di parapsicologia che le costerà la vita, e il lavoro di Marc consiste appunto nel portare a galla le verità nascoste, dal quadro nel muro alla stanza murata per finire con l’immagine riflessa in uno specchio che svela il volto dell’assassino. Il violento confronto con l’altro che Profondo rosso evoca è così anche un viaggio nei recessi della psiche, sollecitato da visioni sconcertanti che simboleggiano la triste agonia in cui si agitano i pensieri inconfessati. Il celebre corridoio di dipinti nell’abitazione di Helga Ulmann evoca l’incursione nel groviglio di fantasmi che affollano la psiche, ma i quadri, come ben sapremo vedendo un altro film di Dario Argento, La sindrome di Stendhal, sanno ridestare il sonno della memoria e proiettare l’individuo in un mondo “altro” provocandogli in alcuni casi un profondo shock emotivo.
Naturalmente occorre essere preparati a perdersi nel dedalo di significati che i quadri contemplano, e a lasciarsi coinvolgere nelle situazioni evocate. Lo specchio che Marc individua alla fine del film interrompe il processo di interpretazione. A questo punto che non si tratta più di interpretare una vicenda o un volto, perché lo specchio manda un’immagine riflessa che sancisce l’infinita alterità dell’immagine. L’immagine perde la funzione di certificare il reale e quello che appare è soltanto il riflesso di un’immagine altra. E il volto di Marc riflesso nello specchio non è quello dell’assassino, perché l’assassino è lì, nella stessa casa, ma l’immagine non registra più la sua figura. Soltanto la memoria di Marc può sancire che in quello specchio comparve il volto dell’assassino. Le implicazioni epistemiche di Profondo rosso riportano a Blow-up di Michelangelo Antonioni e Argento realizza un film attento ai dettagli e alla plausibilità delle situazioni. L’incubo, per sembrare “vero” e funzionare meglio, necessita di dettagli credibili, e tutte le sequenze di sofferenze e spavento sono studiate per suggerire una paura plausibile. Non streghe o fantasmi dunque, ma una scrittrice che viene annegata nell’acqua bollente e uno studioso di parapsicologia i cui denti vengono frantumati contro uno spigolo nel muro che più vero non si può. Sangue ed efferatezza senza attenuanti, al suono della musica ossessiva e innovativa dei Goblin.
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