«Il mondo è fatto per la maggior parte da persone che nella vita hanno fallito. Grazie a Fantozzi ho fatto in modo che alcuni neppure si accorgessero di essere nullità. O al limite ho fatto sì che non si sentissero soli.»
(Paolo Villaggio)
Nonostante la sua penetrazione massiva nell’immaginario collettivo, laddove, oramai, è divenuta un vero è proprio archetipo, probabilmente non si sono ancora comprese fino in fondo la potenza e l’universalità della maschera creata da Paolo Villaggio, Fantozzi. Se è vero che non tutti gli episodi cinematografici del ragioniere più sfortunato d’Italia hanno raggiunto lo stesso livello – col passare del tempo si è degenerato con trovate comiche sempre più slegate dall’assunto originario -, è innegabile che i primi due film della saga (ma anche il terzo, il quarto e l’ottavo) abbiano modificato sensibilmente le coordinate dell’umorismo, fornendo un campionario umano incredibilmente simile al pubblico che di esso rideva. È questa l’enorme rivoluzione avviata da Villaggio: lo spettatore assiste divertito, senza rendersi conto, in definitiva, che si sta guardando allo specchio. La classe impiegatizia, con le sue meschinità, bassezze e miopia, in quegli anni (ma ancora oggi), rappresentava l’asse portante del mondo del lavoro, la maggioranza della popolazione attiva. La penna di Villaggio ne deformò all’inverosimile i vizi, ma le dinamiche dei rapporti furono inquadrate con precisione chirurgica: il servilismo, la rivalità tra colleghi, l’arrivismo, la delazione e il ricatto erano (e sono) davvero operativi, delineando un’umanità miserabile, senza ideali, incapace di guardare oltre il proprio naso.
Fantozzi (1975), diretto dal mai troppo rivalutato Luciano Salce, inizia con l’inquadratura di spalle della signora Pina (Liù Bosisio, che dopo il secondo episodio fu sostituita da Milena Vukotic) mentre telefona al centralino della megaditta, per chiedere “umilmente” notizie del marito, scomparso da diciotto giorni. Subito con toni tra il grottesco e il surreale, ha inizio l’avventura cinematografica del ragionier Ugo, che grazie al fiuto infallibile di un altro impiegato viene trovato murato vivo nei bagni dell’ufficio. Questo esilarante prologo introduce la descrizione del personaggio, un omuncolo che vive in un appartamento squallido, con una moglie servile e anonima e una figlia sgradevole d’aspetto e afasica (Plinio Fernando). Il resto è arcinoto: la perenne ansia per il cartellino da timbrare, la passione non corrisposta per la signorina Silvani (Anna Mazzamauro), i “terrificanti” eventi organizzati dal ragionier Filini (Gigi Reder), la rabbia per la scaltrezza del collega Calboni (Giuseppe Anatrelli, perfetto nel ruolo) e, soprattutto, nel finale, la breve parentesi politica contestataria di Fantozzi, velocemente neutralizzata, con tanto di ammissione nell’acquario personale del megadirettore.
Quando si diventa un aggettivo – “fantozziano” – vuol dire che si è riusciti a deformare a tal punto la realtà da far sgorgare nuove prospettive e riserve di senso. Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luciano Salce e lo stesso Paolo Villaggio, in sede di sceneggiatura, configurarono un panorama umano e di situazioni incredibilmente innovativo, impareggiabile, introducendo una potente contro narrazione che a tutt’oggi non trova eguali per incisività e acutezza di sguardo. L’eroica ironia di Villaggio riusciva sistematicamente a innescare una sospensione del tragico, annunciando un tipo di uomo a dir poco decadente, un soggetto ‘che non vuole più volere’, che si lascia trascinare dalla corrente di un pensiero debole che ha definitivamente smesso di porsi in maniera antagonistica rispetto alla realtà o, quanto meno, di sviluppare una critica minima. Eppure di lì a poco l’Italia avrebbe vissuto gli anni più infuocati della sua recente storia politica, ma il mondo di Fantozzi costituiva il naturale contrappunto e Salce e Villaggio non mancarono di stigmatizzare impietosamente il contestatore tipo di quel periodo, munendo il ragioniere di sciarpa rossa ed eskimo, ridicolizzando qualsiasi tentativo di sottrarsi alla deriva della più bieca normalizzazione.
Nel mondo di Fantozzi non c’è spazio per il dolore o un vero desiderio di rivalsa, perché ormai la logica dei consumi ha trionfato e sussunto chiunque e, dunque, tentare di opporsi non può che provocare riso e scherno. Insomma, non c’è via di uscita, è, a tutti gli effetti, un incubo in cui al massimo si può provare a evitare di sprofondare nell’abisso, sebbene la contropartita sia unicamente trattenere il fiato in attesa di giungere a un evitabile epilogo, che livella tutti, eliminando qualunque distinzione e restituendo i singoli all’anonimato di un mostruoso e informe corpo-massa senza anima.
“Fantozzi non era commedia, era un film un pochettino atipico, con una cattiveria, una ferocia nei riguardi dei disgraziati, che si è realizzata in pieno”.
(Paolo Villaggio)
Grazie a Mustang e CG Entertainment, ora Fantozzi è disponibile in una nuova versione blu ray (2021), con nuovo restauro e nuova color correction 2021 a cura di Cineteca di Bologna, in collaborazione con RTI Mediaset e Infinity, e la supervisione del direttore della fotografia Daniele Ciprì. Nei contenuti extra: introduzione al film del critico Gianni Canova e interviste al Direttore della Cineteca di Bologna Gianluca Farinelli e al direttore della fotografia Daniele Ciprì.
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