Continuiamo a pubblicare le recensioni e i saggi vincitori del Premio Adelio Ferrero 2021.
Presentiamo il primo classificato nella sezione “recensioni”
Il trauma della (ri)nascita. Sole, di Carlo Sironi
di Martina Puliatti
Le luci bluastre dei monitor delle macchine mangiasoldi si riflettono sul viso pallido di Ermanno. Illuminano il suo sguardo vitreo, privo d’espressione; sempre gettato su un fuori campo vuoto, perduto in uno spazio d’annichilimento e acerba rassegnazione. Il colore blu elettrico si trova dappertutto nell’incipit di Sole (2019), esordio al lungometraggio di Carlo Sironi: è quello delle slot machine onnipresenti nella routine del ragazzo; ma anche delle stroboscopiche della discoteca, nella quale lo incontriamo per la prima volta scoprendone l’imperturbabile solitudine.
Il (fuori) contesto vissuto da Ermanno (Claudio Segaluscio) viene subito definito in poche asciutte inquadrature: la periferia, i furti, lo sfasciacarrozze-ricettatore, l’azzardo, i soldi sempre troppo pochi. È qui che si inserisce – nella terra dell’abbastanza, di sguardi bassi e inezia esistenziale – l’espediente narrativo della gravidanza di Lena (Sandra Drzymalska), la ventiduenne venuta dall’Est che venderà la sua bambina agli zii di Ermanno. Nell’attesa del parto, quest’ultimo vestirà i panni del “carceriere” e del padre della piccola, aiutando gli zii nell’inscenare un’adozione tra parenti in cambio di denaro.
Il blu acido che colma le immagini iniziali lascia il posto al ceruleo marino. Il mare d’inverno entra in scena riflettendosi sul volto di Lena all’ingresso nella casa che li ospiterà fino al parto: sempre fuori campo e osservato oltre il vetro; interdetto ai personaggi se non a far loro da sfondo immobile, quasi finzionale – doppiato dal mare dipinto sulla parete dell’ascensore –, delineando i contorni di un acquario intorno alla giovane coppia reclusa. Il formato dell’immagine scelto da Sironi è, per l’appunto, il 4:3: segnale esplicito di “detenzione” filmica, di contenimento opprimente di ciò che altrimenti straborderebbe. Il regista, invero, contiene ciascun momento, raccogliendo in modo essenziale sguardi e gesti appena accennati, in modo che – rivelandosi nella loro essenzialità di fatti puri – questi possano raccontarsi anche senza esser veicolati da dialoghi o svolte narrative.
L’andamento “trattenuto” della vicenda – derivante dal primo cinema di Sironi – sembra inaridirsi seguendo il motore immobile del denaro, vera causale delle storie private di entrambi i soggetti. Il denaro posseduto dagli zii rappresenta l’avvio e il termine ultimo del percorso esperienziale vissuto dai ragazzi. Di fatto, ciascuna delle cure messe in atto dai benestanti Fabio e Bianca scaturisce dalla loro agiatezza economica e, primariamente, dalla necessità di accertarsi di mandare in porto un “buon affare”. Il ritratto che Sironi concede della matura coppia borghese artefice della “transazione”, non è mai giudicante; ma, nonostante sia lasciata piena autonomia di sguardo, l’empatia spettatoriale risulta compromessa e le loro figure, percepite presto come invadenti rispetto al nucleo costituitosi intorno alla neonata, rasentano il confine di una recondita immoralità.
Sironi sembra provenire da una coscienza di orientamento neorealista, ripiombata al centro dello stato di crisi contemporanea; riscoperta negli occhi, nei corpi e nei linguaggi dei suoi personaggi piegati dalle ferite del nuovo mondo. Neorealista perché artefice di una narrazione onesta, libera da intenti a tesi; mossa da veggenze spente e sensazioni pure di vita (non) vissuta. È un cinema che respira accanto al personaggio, il quale vive l’impasse dell’azione – di ogni azione –; che oscilla con esso nel mare delle sue turbolenze interiori sempre taciute, e in ciascuna delle sue occasioni di rinascita e fallimento.
Il romanzo di formazione – questo muto divenire-adulto – di Ermanno e Lena si conclude con il trauma di una doppia (ri)nascita: lanciando i personaggi con violenza nel mondo dei sogni già infranti; raccontando, in fondo, e insieme a molto altro cinema italiano dell’oggi, di una gioventù che ha già perso il vizio della speranza.
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