Continuiamo a pubblicare le recensioni e i saggi vincitori del Premio Adelio Ferrero 2021.
Presentiamo il primo classificato nella sezione “Saggi”
ZEN FOR FILM
IL VUOTO NEL CINEMA DI YASUJIRŌ OZU
di Davide Palella
All’interno della sfera del pensiero occidentale il concetto di sostanza (lat. substantia, gr. hypostasis) ha da sempre rappresentato il fondamento attorno al quale costituire l’unità e l’identità dell’essere. La sostanza è ciò che è saldo in ogni processo di trasformazione e in latino, substare (tradotto letteralmente: stare sotto) da cui deriva substantia, significa resistere”, “sostenere”. L’idea stessa di sostanza implica una persistenza inamovibile dell’ente nel costrutto della realtà. Inoltre, assieme a “essenza” e “fondamento”, hypostasis significa anche “resistenza”. Alla sostanza può essere imputata la responsabilità delle pratiche di separazione e distinzione, tanto adottate e amate dall’occidente, la cui tendenza politica, sociale, geografica etc. è concepita per la chiusura e non per l’apertura.
Ad essa è però contrapponibile un altro concetto, Sūnyatā (Vacuità), le cui radici sono ramificate in oriente e più di preciso nel buddhismo. Sottoposti a confronto è possibile affermare come da un lato la sostanza sia ascrivibile ad una certa pienezza immateriale e intangibile, dall’altro Sūnyatā svincola l’ente immettendolo in una condizione di sconfinata non-separatezza. Il divino non trova alcuno spazio sul quale elevarsi in quanto nulla si appoggia a quel substrato metafisico che conferisca e determini il cosiddetto trascendente. «Nessun dislivello dell’essere separa la Vacuità dall’immanenza fenomenica. Come è stato spesso rilevato, la “trascendenza” o il “Totalmente Altro” non rappresentano un modello dell’essere che appartiene al pensiero estremo-orientale.»[1]
Paul Schrader, con il suo Il trascendente nel cinema, si domanda in che modo sia possibile rappresentare a schermo il totalmente Altro ovvero il “divino”. Appare subito chiaro dalle prime pagine del saggio come il fotografare direttamente il divino, il “sacro” ed il “trascendente” e cioè rappresentare all’interno del profilmico questi tre enti servendosi degli effetti speciali, da Griffith a DeMille, risulti come la via più distante dal raggiungimento dell’obbiettivo prefissato. Ad essere invece considerato come principale modello dell’arte trascendentale è nientemeno che lo zen, approfondito nel capitolo che tratta di Yasujirō Ozu. Lo zen però, contrariamente a quanto sostenuto da Schrader, si discosta dallo stile trascendentale e con l’ausilio della differenza esposta tra sostanza e Vacuità tenterò di far intuire come l’assunto di partenza dello statunitense possa essere considerato errato.
«Una volta un monaco chiese al maestro Joshu: “Un cane possiede la natura di Buddha?” Joshu rispose: “mu!”»[2]
Il concetto sopra introdotto di Vacuità si posiziona nello strato più vasto e profondo dello sguardo buddhista. Risulta però necessaria una più precisa e pertinente definizione di tale concetto in quanto Sūnyatā non ha natura esclusiva zen e anzi acquisisce significati differenti per ogni scuola facente parte della storia del buddhismo. Viene allora in mio soccorso un termine la cui risonanza in terra nipponica gli ha permesso di assurgere a principio fondamentale dello zen tanto che esso è contenuto in quello che, posto in apertura, è considerato il koan più diffuso tra Oriente ed Occidente. Tale parola è “mu”.
La traduzione letterale di “mu” è “no” o “senza”, pertanto la risposta del maestro risulta inequivocabile: “un cane non ha la natura di Buddha”. Ad una lettura più approfondita “mu” significa “vuoto” in generale, non in risposta a quella precisa domanda, ma come dichiarazione che riguarda ogni elemento afferente il mondo: maestro, allievo, l’idea e parola stessa “cane”, così come l’idea e parola “natura di Buddha” ecc. Ciò significa che “mu” è presente in ogni cosa, sia in quelle reali (maestro e allievo), sia in quelle relative alla sfera del pensiero (idea di cane, idea di Buddha ecc.). L’allievo nel tentativo di comprendere si trova in una condizione di crisi, immerso nell’esperienza della Vacuità; mai in concetti ma sempre in atti.
Diventa possibile iniziare a ragionare sul perché il buddhismo zen, proprio per l’importanza riservata più alla pura azione che al linguaggio, abbia condotto il Giappone a codificare arti e modi di vivere, più che formulare teorie. L’influenza dello zen su molte forme d’arte risulta ben più radicale di un semplice influsso culturale in quanto le stesse si costituiscono e si sviluppano solo all’inteno della sfera che ha come punti di riferimento le riflessioni sul vuoto prodotte dal buddhismo. Per lo zen l’arte non è percepita come un’attività altra rispetto al quotidiano, anzi, essa altro non è che uno dei molteplici modi di porsi nei confronti dell’esperienza del reale come la meditazione, l’attività fisica e così via.
Si dissolve anche il dubbio sul perchè lo zen abbia costituito una fonte d’ispirazione per ogni manifestazione della vita giapponese tradizionale tanto da poter definire uno stile della stessa che abbia il mu come base e punto di arrivo.
Non si potrebbe parlare di un’estetica zen, se con tale termine si intendesse una “scienza del bello” o, comunque, una disciplina che si occupa di una sfera particolare dell’esperienza: infatti la “bellezza” contenuta nelle opere prodotte dalle arti ispirate allo zen è della medesima natura di quella contenuta in una parola o in un gesto che scaturisca dal vuoto (…)[3]
Tra le prime opere citate da Schrader come capaci di esprimere il trascendente riflesso nell’uomo, ovvero, opere create dall’uomo con il preciso intento di essere espressione del totalmente Altro appaiono i giardini zen e il cinema di Yasujirō Ozu. Ozu ha infatti, sempre secondo lo statunitense, incarnato a pieno lo stile trascendentale grazie ad una concezione formalistica del cinema. Se nei suoi film questo stile appare come naturalmente radicato e, fattore da non sottovalutare, commercialmente riuscito è soprattutto grazie alle caratteristiche stesse della cultura e società giapponese. Egli spesso è stato difatti indicato come “il più giapponese dei registi giapponesi” per rimarcare come non solo si sia sempre mosso con grande rispetto all’interno delle convenzioni classiche dell’arte della propria patria ma anzi quanto si fosse immerso nell’effettiva profondità delle stesse. «L’arte orientale in generale, e l’arte zen in particolare, aspirano al trascendente.»[4] e «Il nemico della trascendenza è l’immanente, nelle sue due forme, esteriore (il realismo, il razionalismo) e interiore (lo psicologismo, l’espressionismo).»[5] Come già abbiamo avuto modo di vedere, lo zen, nonostante il suo essere immanente non ha nulla a che fare né con l’esteriore né con l’interiore riportati da Schrader. Realisti sono coloro che conferiscono realtà agli enti del pensiero; lo zen non fonda il suo valore sul pensiero così come non lo fonda nemmeno sulla ragione umana, la fonte di ogni conoscenza per i razionalisti. Con Jung e la sua critica allo zen si potrebbe a lungo discutere a proposito dell’inefficacia dello psicologismo e per quanto concerne l’espressionismo si può dire semplicemente che lo zen non si occupa di esaltare ed esasperare il lato emotivo della realtà rispetto all’oggettività della realtà stessa.
«(…) lo stile trascendentale cade indiscutibilmente nel campo del primitivismo. (…) lo stile trascendentale preferisce l’irrazionalismo al razionalismo, la ripetizione alla variazione, il sacro al profano, l’ascetismo alla mondanità, il realismo intellettuale al realismo visivo, una visione bidimensionale a una tridimensionale, la tradizione alla sperimentazione, la recitazione spersonalizzata alla caratterizzazione.»[6]
In questo elenco comparativo Schrader cita molti elementi meritevoli di approfondimento ma focalizziamoci brevemente sul confronto posto tra irrazionalismo/razionalismo e sacro/profano e in particolare su quest’ultimo in quanto cela una contraddizione di fondo esplicitata incosapevolmente dallo stesso Schrader poche pagine più avanti. Se davvero lo stile trascendentale potesse trovare nello zen un suo perfetto modello allora sarebbe altrettanto vero che l’irrazionalismo al quale viene accordata la preferenza per il trascendente avrebbe carattere immanente. Basti infatti ripetere qui come l’irrazionalismo, la contraddizione sia uno se non il principio scaturente della rivelazione zen; il famoso koan del “mu”.
Passando poi alla seconda contraddizione la frase di Schrader «Come l’arte primitiva, anche l’arte orientale tradizionale non fa distinzioni tra sacro e profano.»[7] risulta corretta in quanto è vero che l’arte orientale tradizionale, fortemente influenzata dallo zen, non pone distanza tra sacro e profano e ciò cozza con quanto detto prima a proposito della sovrapponibilità tra stile trascendentale e primitivismo. Viene detto come quest’ultimo prediliga il sacro al profano ma è anche affermato che l’arte primitiva, alla quale il primitivismo riconosce “la vera dimensione dell’essere umano”, non tenda né all’uno né all’altro. Ma lo zen non ha alcunché di sacro e quando esso fa risplendere il dire attraverso il non-dire, questo silenzio non avviene a favore di un’essenza idicibile, “al di sopra” del linguaggio. Lo splendore non discende dall’alto, esso è piuttosto quello delle cose stesse nel loro apparire, è cioè lo splendore dell’immanenza. Il livello profondo di una totale fusione con Dio esibisce un impianto narcisistico. Nella fusione col mistico l’uomo si compiace in Dio mentre il buddhismo zen è liberazione da ego e autoreferenzialità.
A proposito di Ozu Tom Milne scrisse che i suoi film sono strutturati come un haiku, con le pause ad esso connaturate e versi così densi di significato ma cosa intende Milne con significato? Gli haiku non esprimono nessun profondo significato e anzi non esprimono proprio alcunché se non la realtà stessa che visualizzano. Il buddhismo zen non solo è senza perchè, ma non comprende nemmeno alcun “canto” divino. Lo stesso haiku, se lo si ascolta attentamente, non è “musicale”. Non è condizionato da alcun desiderio, è scevro da invocazione o nostalgia e per questo possiede un’aria insapore. Questa cosiddetta assenza di sapore è proprio ciò che ne costituisce la sua inapparente profondità. Esso non presenta alcuna interiorità così come non è possibile riconoscere al suo interno un “io lirico”. È piuttosto una visione di nessuno. «Nessun tetto sopra la testa e nessuna terra sotto i piedi.»[8] «D’un sol colpo il grande cielo finisce in frantumi. Sacro e profano senza traccia svaniti. Nell’intransitato finisce la via»[9], la via zen non conduce al trascendente. La fuga dal mondo risulta impossibile poichè non v’è un altro mondo, «L’infinito è immanente alla struttura stessa dell’immagine, (…)”[10]
Dopo aver chiarito se la natura dello zen debba essere considerata trascendente o immanente passiamo ora ad un argomento di primaria importanza nel pensiero di Schrader che consiste in ciò che egli definisce come “tre fasi dello stile trascendentale”. Trattiamo di queste perché risultano indispensabili nell’analisi dell’opera di Ozu e al fine di poterne far un uso corretto è necessario ricalibrarne leggermente la concezione; soprattutto a seguito delle critiche rivolte al paradigma trascendente/zen. Si tenga presente che non ho deciso di avvalermi delle tre fasi solo per la loro vicinanza con la metodologia del regista ma anche e soprattutto perchè ritengo che esse, se giustamente considerate, possono davvero fungere come strumento critico per un’efficace lettura dello zen nell’arte cinematografica (così come anche di molte altre discipline artistiche).
Le tre fasi dello stile trascendentale secondo Schrader sono in breve:
- La quotidianità: una meticolosa rappresentazione dei banali, insulsi luoghi comuni della vita di tutti i giorni.
- Scissione: una reale o potenziale separazione tra l’uomo e il suo ambiente che culmina in un evento decisivo.
- Stasi: una visione cristallizzata della vita che non risolve la scissione ma la trascende.
Tra le tre fasi la più problematica nell’avvicinamento del medoto di Schrader con lo zen è senza dubbio la seconda, la scissione. Per le restanti due infatti è necessario invertire la tendenza di poche parole, nello specifico quelle riguardanti il trascendente, per renderle adatte allo scopo prefissatomi e per rendere il tutto ancora più chiaro manterrò il termine quotidiano tale e identificherò nella scissione e nella stasi rispettivamente satori e Sūnyatā.
Avvicinandosi alla conclusione della sua riflessione su Ozu, Schrader scrive, tra l’altro dimostrando una forte consapevolezza dello zen, di come l’Oriente abbia cercato il trascendente all’interno del mondo, l’Occidente al di fuori dello stesso. Il discrimine tra espressione orientale e occidentale si può ritrovare nella distanza che intercorre tra il Satori e la conversione: Il Satori (l’illuminazione) è la conoscenza del mondo così come è realmente. Esso differisce dal concetto cristiano della conversione, ossia qualcosa che cade dall’alto per intervenire sul reale. Il Satori si esprime in un unico baleno di consapevolezza, mentre la conversione si confà ad un processo di scissione, che presuppone l’iter cristologico di crocifissione e resurrezione, un crudo staccarsi dal proprio individuo e dalla propria fisicità seguiti da una beatificazione incorporea.
Ciò sembrerebbe rispondere già al bisogno da me manifestato riguardante l’applicazione delle tre fasi all’analisi dell’arte zen e pare vanificare la mia critica a seguito della manifesta consapevolezza insita nella differenza tra la scissione intesa dallo stile trascendentale e dalla “scissione” propria del Satori. All’affermazione di Schrader rispondo che il trascendente per come egli lo ha inteso durante l’intero saggio ha a che vedere con ciò che ho già avuto modo di citare ovverosia il totalmente Altro. Ma per assicurarmi un corretto posizionamento nella questione e l’evitare qualunque superficialità, constatiamo un attimo in cosa consista questo totalmente Altro.
Il totalmente Altro è un’espressione coniata dallo storico delle religioni e teologo tedesco Rudolf Otto per indicare la trascendenza assoluta. Altrettanto famosa è la definizione “mysterium tremendum et fascinans”, ovverosia quel mistero tremendo ed affascinante che avviluppa il sacro, che appare come ciò che inibisce la ragione e che sconvolge suscitando stati emotivi quali la meraviglia, lo stupore e lo sbigottimento di fronte alla trascendenza, il totalmente Altro. Ora, tralasciando pure che sentimenti come il mistero, il fascino, la meraviglia, lo stupore e lo sbigottamente non appartengano al risveglio zen si potrebbe dire che il totalmente Altro non afferisca alla sfera del Divino bensì a quella Vacuità conseguente al satori ma ciò non corrisponderebbe al reale pensiero di Otto. Quest’ultimo infatti considera sia il mysterium tremendum et fascinans sia il totalmente Altro come parte di quattro “vissuti”[11] che appartengono a ciò che Otto descrive come un aspetto fondamentale del sacro, il “Numinoso”, altro termine coniato dallo stesso posto a indicare l’esperienza peculiare, di una presenza invisibile, maestosa, potente che ispira terrore. Tale esperienza costituirebbe l’elemento essenziale del sacro e la fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità, ovvero, l’ente Divino (Numinoso deriva da numen, termine latino per esprimere la potenza divina). Il riferimento non è a un dio specifico ma a un’entità superiore indefinita e potente.
Risalito dunque all’origine del significato di totalmente Altro è possibile rendersi conto di quanto esso non sia zen e di come l’adozione di quest’ultimo come pratica per tendere al trascendente, perlomeno nell’accezione adottata da Schrader derivante dal pensiero di Otto, sia da considerare errata. Con ciò non intendo che il termine trascendenza sia inadatto in senso assoluto, anzi, probabilmente esso corrisponde allo strumento più efficace per indicare l’esperienza del Satori. Risulta però evidente come per una corretta comprensione etimologica del mio studio si debba sempre tenere a mente la volontà quasi apateistica nell’individuare il trascendente all’interno della seconda fase, la scissione.
«Nell’intransitato accade una svolta, e d’improvviso si apre una nuova via, che poi in verità è l’antica.»[12]
Yasujirō Ozu, sulla cui tomba è inciso un solo ideogramma: “mu”, è considerato uno dei grandi maestri del cinema mondiale e Tōkyō monogatari (Viaggio a Tokyo), apice del suo cinema pacato e delicatissimo, annoverato tra i più bei film di tutti i tempi. Wim Wenders disse nei suoi confronti: «Mai prima di lui e mai dopo di lui il cinema è stato così prossimo alla sua essenza e al suo scopo ultimo.» Senza dubbio la vicinanza all’essenziale propria dell’opera di Ozu è imputabile all’immensa influenza esercitata dallo zen nei confronti del suo pensiero e della sua poetica tanto che lo zen stesso, così radicato nel mondo da lui abitato, gli ha permesso al contempo sia il rispetto verso le antiche tradizioni artistiche del proprio paese sia il successo critico e commerciale del suo tempo. Ozu è stato un autore dotato di un forte spirito conservatore per tematiche affrontate e tecniche adottate e spesso si è trovato protagonista di una battaglia per la salvaguardia dei valori tradizionali giapponesi venendo per questo erroneamente considerato un reazionario. Ciò emerge anche dalla sua enorme filmografia, la quale mostra come egli non si sia mai prestato all’affannosa ricerca della novità e anzi abbia trovato la sua ragion d’essere in un costante percorso di perfezionamento di messa in scena, montaggio, recitazione e così via. Il regista nipponico è difatti noto per la sua ossessione nel “rifare sempre lo stesso film”, e non solo per quanto riguarda gli aspetti più propriamente filmici ma anche per la scelta dei collaboratori e degli attori presenti nelle sue pellicole. E proprio perché nell’ultimo film troviamo il compimento più rigoroso della sua pratica cinematografica, Sanma no Aji (Il Gusto del Sakè) può essere definito come la summa di un lavoro votato a un rigore fulmineo, una dolce aridità. Ed è a proposito di questa ferrea disciplina che diviene più efficace definire lo stile di Ozu attraverso cio che sceglie di non compiere.
La macchina da presa non si muove mai, né attraverso l’uso di carrellate né servendosi di panoramiche o zoom. La ritmicità ritualistica del montaggio non è data da stacchi improvvisi o metaforici bensì da una regolarità estenuante. Con il passare del tempo Ozu ha progressivamente fatto meno di piani sequenza, primi piani insistiti, gesti molto evidenti da parte dei personaggi, raccordi sul movimento, collegamenti tra due diverse scene in interni senza l’inserimento di una coda in esterni e l’uso del chiaroscuro.
Data una tale selettiva precisione nei confronti dei mezzi che il cinema gli offriva potrebbero confondere le dichiarazioni dello stesso Ozu che afferma «Io ho definito un mio stile, ma non penso ci sia una grammatica di come si fanno i film.»[13] Questo rifiuto netto nel credere che esista nel cinema un linguaggio filmico precostituito e definitorio delle modalità espressive di tale mezzo trova il proprio motivo nella prima volta in cui Ozu ha osato provare a riprendere in questo suo modo eterodosso. Eli si trovò a girare una scena in una stanza in stile giapponese con i personaggi posti necessariamente in relazione all’ambiente circostante e attenendosi alla regola dei 180° gli era del tutto impossibile esprimere come volesse i sentimenti e l’atmosfera di quella scena. Sulla base delle sue dichiarazioni ci si potrebbe limitare a pensare che la scelta compiuta fosse stata dettata esclusivamente da cause di forza maggiore ma, ripensando in chiave zen questo approccio del regista ecco allora che si apre di fronte a noi la vera ragione del punto di vista da lui adottato. Come nella pittura zen, così anche per Ozu, non vi mai è un’accettazione aprioristica di regole prospettiche fisse che impediscano una libertà espressiva permessa invece da quella che definiremmo, per il punto di vista del regista in questione, “circumprospettiva”.
L’abbattimento degli spazi permette un’immersione molto peculiare, veicolata da quella che è forse la più famosa caratteristica dei film di Yasujirō Ozu, l’altezza della mdp. La cinepresa di Ozu nella maggior parte dei casi è posizionata all’altezza di una persona seduta nella tipica postura sul tatami, a meno di un metro dal pavimento e
«(…) che costringe a una profondità di campo molto limitata, ma favorisce una propensione ad ascoltare, a guardare. È la posizione dalla quale si assiste agli spettacoli del teatro nō e dalla quale si partecipa alla cerimonia del tè. Rappresenta la disposizione estetica, l’atteggiamento passivo.»[14]
pronto ad essere penetrato e riempito dalla presenza spettatoriale. Ozu commenta in termini scherzosamente tecnici anche questa scelta quando dice:
«Sono uno dalle preferenze molto marcate, per cui è inevitabile che anche i miei film abbiano qualche vezzo. Uno di questi è il fatto di posizionare la macchina da presa in basso e di fare sempre delle inquadrature dal basso. (…) Giravamo la scena di un locale notturno e a quell’epoca, a differenza di oggi, si lavorava con poche lampade, per cui a ogni ripresa si dovevano spostare le luci da una parte o dall’altra e dopo due o tre riprese i fili elettrici erano aggrovigliati ovunque sul pavimento. Riordinare ogni volta prima di passare alla ripresa successiva era una scocciatura, allora, per non riprendere il pavimento, posizionai la macchina da presa che guardava dal basso verso l’alto.»[15]
Questa citazione, oltre a dirci molto del carattere giocoso di Ozu, lascia trasparire come all’interno di una scelta così importante sul posizionamento del punto di vista sia nascosto invece un significato molto più profondo del semplice aggrovigliarsi di fili denunciato dal regista. Tutti gli elementi indicati sul posizionamento della mdp come altezza, inclinazione, profondità di campo coincidono con lo stare seduto spettatoriale sia del teatro sia del cinema e a questi va sommata la scelta del 50mm (il più vicino tra gli obbiettivi a simulare lo sguardo umano) a cui Ozu era particolarmente affezionato.
Tutto è a favore dell’immersività dello spettatore che in definitiva proietta nel punto di vista sé stesso ed il proprio sguardo subendo lo stesso svuotamento del sé che opera l’Ozu intento a selezionare l’inquadratura più efficace nel cogliere il mondo a lui di fronte.
E per approfondire questo svuotamento appena citato è indispensabile chiarire prima un’aspetto fondamentale di come Ozu intendesse le vicende da lui trattate in relazione al proprio vissuto e alla propria esperienza umana. Ozu non si è mai sposato ed ha sempre convissuto con l’anziana madre e i suoi film spesso sono incentrati sul complesso rapporto tra figli e genitori, della sofferta decisione del matrimonio e del trauma portato dalla scissione famigliare. Ciò potrebbe far pensare, secondo un’ottica occidentale, che questi temi siano l’interesse primario del regista in quanto:
«Dal Rinascimento in poi l’arte occidentale, cinema incluso, si è sviluppata soprattutto attorno al concetto di espressione individuale – nell'”illusione” scrive Coomaraswamy “di essere creatori” – mentre nell’arte orientale tradizionale “l’individualità umana non è un fine ma solo un mezzo”.»[16]
Se da un lato secondo Schrader l’interpretazione personale dei film di Ozu è stata favorita dal semplice fatto che disponiamo di maggiori informazioni su di lui rispetto agli artisti tradizionali; dall’altro la stessa è stata avvallata poiché il regista giapponese,
«(…) a differenza di un poeta o di un pittore zen, deve utilizzare come materiale grezzo esseri umani viventi. (…) Tuttavia i personaggi dello schermo, con tutte le loro emozioni, riescono a rappresentare il pensiero del regista non più di quanto lo faccia una ripresa di soggetti non umani, che si tratti di un treno o di un palazzo. In effetti i sentimenti individuali dei personaggi non hanno grande importanza: è la forma che li comprende a conferire loro un valore durevole.»[17]
Tutto dunque ci permette di constatare come Ozu non volesse manifestare la propria personalità interiore e che anzi cercasse di eliminarla, non solo con il già discusso posizionamento della mdp ma anche attraverso il come egli concepisce la direzione degli attori. Gli stessi raccontano di come fossero costretti a ripetere la stessa scena venti o trenta volte di seguito affinché qualsiasi tratto di interpretazione divenisse automatismo all’interno della generale idea di economia della forma del suo cinema. E come per molti altri aspetti risulta paradossale e strettamente legata alla naturalezza l’affermazione dello stesso Ozu che dice:
«Per esprimere i sentimenti, le espressioni del volto servono solo per il trenta o quaranta per cento. Il regista non deve tirar fuori i sentimenti degli attori, piuttosto deve contenerli. (…) È una questione di saper trattenere. Bisogna esprimere il carattere trattenendo, trattenendo (…)»[18],
«In altre parole, si dovrebbe poter esprimere un’esplosione di rabbia anche senza alzare la voce.»[19].
Altra nota avversione del regista fu nei confronti della dissolvenza qualunque forma essa assumesse la quale veniva considerata non più di una caratteristica della cinepresa. Egli preferiva sempre un taglio a una dissolvenza che avrebbe potuto andar bene sì agli albori del cinema per indicare il passaggio del tempo in chiusura o in apertura di una scena ma che non trovava più spazio nel pensiero cinematografico di Ozu così marcatamente improntato all’ellissi. Nella pittura zen l’immagine è il risultato di un segno eseguito in un respiro. Allo stesso modo la linea dipinta, una sola e concisa, la quale contiene al suo interno innumerevoli linee, viene preferita a quelle sottili e fini.
Le ellissi dei film di Ozu poi vanno viste in relazione non solo al ritmo e al tono della tensione drammatica ma anche e soprattutto in relazione alla struttura stessa del film perchè esercitano un ruolo fondamentale per focalizzare l’attenzione dello spettatore su un preciso elemento, omettendone altri.
«La stessa cosa avviene nella pittura: se dipingo una parte in maniera poco definita, attrarrò ancor più l’attenzione nei dettagli su un’altra parte del dipinto. Si può proprio dire che il problema dell’ellissi nel cinema sia la chiave essenziale della costruzione drammatica del film stesso.»[20]
In questa dichiarazione del regista giapponese il mu si manifesta in tutta la sua primaria importanza e collega il tassello mancante relativo al discorso costruito sin qui tra l’espressione artistica zen e il cinema di Ozu, ovverosia, il vuoto/pieno dell’immagine. Se nella pittura zen il vuoto sulla superficie della tela si manifesta con la presenza tangibile della china, così nel cinema di Ozu esso è presente in tutti gli spazi relegati tra un taglio di montaggio e un altro. Ma non solo, Ozu dispone il vuoto anche all’interno della sfera del visibile avvalendosi di altre modalità come ad esempio personaggi che si comportano e reagiscono ad azioni silenziose che avvengono sullo sfondo come se le udissero o ancora tramite lo stile “One-corner”, creato dal pittore Ma Yüan, attraverso il quale viene dipinta solo una parte della tela lasciando il resto bianco.[21]
Tuttavia il mu è espresso soprattutto negli inframezzi che ritmano i film di Ozu che il critico statunitense Noël Burch ha definito “Pillow shots” a differenza del termine “code” scelto da Schrader e mutuato dal lessico musicale per indicare la parte finale di un brano, di un episodio o di una frase musicale. La struttura dei film di Ozu è fondata sull’alternarsi di azione e vuoto distribuiti tra scene in interni e code in esterni; nelle prime, che hanno luogo nei quattro ambienti prediletti dal giapponese ovvero casa, ufficio, bar, ristorante, si svolgono sempre i conflitti esplicati da lunghe e intense discussioni mentre, nelle seconde, ci vengono presentate scene immobili di vita giapponese attraverso inquadrature di strade vuote, paesaggi come montagne o laghi e passaggi di treni o barche. Da un punto di vista occidentale le code assumerebbero la funzione di attribuire peso alle scene in interni ma per Ozu il paradigma è opposto e sono dunque le discussioni e le azioni a far assumere significato al mu delle code.
«(…) ciò che in sostanza vorrei fare con questo film è ridurre le componenti drammatiche e far sì che scena dopo scena, in maniera impercettibile, si crei una sorta di suggestione che tocca le corde profonde della sensibilità estetica (mono no aware) e dopo lascia un buon sapore… (…) Detto in altre parole, in un romanzo sarebbe una sfumatura tra le righe, in un’opera di pittura giapponese sarebbe l’uso estetico dello spazio vuoto; in ogni modo si tratta di non mostrare l’interazione fra i sentimenti nudi ma di far percepire le cose solo per vaghi accenni.»[22]
Il termine mono no aware è un concetto chiave dell’estetica e della sensibilità giapponese che sta ad indicare una tristezza simpatetica, un “pathos delle cose” o ancora una “sensibilità verso l’effimero”; l’accettazione serena della transitorietà delle cose e, al contempo, un senso di dolce tristezza che dona senso estetico alla vita. Risulta chiaro affermare allora come al centro dell’utilizzo formale del mu da parte di Ozu si staglia il concetto di mono no aware e che esso corrisponda allo scopo ultimo nella poetica del regista. L’esperienza del vuoto, ora formale, estetica ed emotiva, diviene totale.
NOTE
- Byung-Chul Han, Filosofia del Buddhismo Zen, 50, Edizioni Nottetempo, Milano, 2018.
- 1° gōng’àn del Wúmén guān
- Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del Vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’oriente, pag. 73, Marsilio Editori, Venezia, 2001.
- Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, pag. 13, Donzelli Editore, Roma, 2010.
- Ivi, pagg. 10-11.
- Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, pag. 11, Donzelli Editore, Roma, 2010.
- Ivi, pag. 13.
- Vuoto/Pieno. Il bue e il suo pastore, pag. 66, Edizioni Laterza, Roma, 2013.
- Ivi, pag. 19.
- Andrej Tarkovskij, La Forma dell’anima, 63, Rizzoli, Milano, 2014.
- Gli altri due sono un certo sentimento di inferiorità ed un rapimento mistico.
- Vuoto/Pieno. Il bue e il suo pastore, pag. 66, Edizioni Laterza, Roma, 2013.
- Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, pag. 32, Donzelli Editore, Roma, 2016.
- Citato in Schrader, Il trascendente nel cinema cit, pag.18, Donzelli Editore, Roma, 2010.
- Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, pag. 14, Donzelli Editore, Roma, 2016.
- Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, pagg. 20-21, Donzelli Editore, Roma, 2010.
- Ivi, pag. 22.
- Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, pagg. 57-58, Donzelli Editore, Roma, 2016.
- Ivi, pag. 16.
- Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, pag. 40, Donzelli Editore, Roma, 2016.
- Nei film di Ozu ciò è riscontrabile in varie inquadrature paesaggistiche nelle quali l’azione è relegata in un solo angolo.
- Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, pagg. 99-100, Donzelli Editore, Roma, 2016.
.
Lascia un commento