Tutto il respiro e l’impatto di contenporaneità di cui è capace il nuovo cinema horror sudcoreano si riflette in questa vicenda di zombie, dove il giovane Joon-woo, biondino appassionato di videogiochi abituato a trascorrere gran parte del suo tempo tra le pareti domestiche, si accorge, poco dopo il risveglio mattutino, di essere rimasto solo: la famiglia è partita e ha fatto appena in tempo per lasciare un messaggio di scuse, e molto presto il giovane scopre che la città è preda di un’epidemia che trasforma gli individui in persone violente ed affamate di carne umana. La metamorfosi è disturbante e Joon-woo vede davanti ai suoi occhi le mutazioni, forzate e inquietanti, tra cui quella di un vicino che chiede aiuto e si trasforma, come tutti gli altri, in un cannibale con gli occhi iniettati di sangue.
In Corea del Sud, #Alive è uscito nelle settimane di riapertura delle sale appena dopo la chiusura causata dal Covid-19, e l’incasso è stato subito importante, per un film che si propone come l’ultimo non ultimo racconto di un’epidemia, proprio nel momento in cui un virus colpisce la popolazione mondiale destabilizzando gli animi e imponendo nuove regole che segnano il vivere quotidiano. L’horror avrebbe potuto scatenare dibattiti e controversie, ma in realtà ha funzionato da valvola di sfogo anche per chi ha recuperato il lungometraggio su Netflix dove è presto approdato. #Alive è il debutto alla regia di Cho Il-hyung, il quale non inventa nulla di particolarmente nuovo ma infonde al suo racconto un incalzante dose di ritmo affidandosi ad un personaggio credibile, di cui avvertiamo presto l’angoscia e lo smarrimento, una volta che, rimasto solo in casa e impossibilitato a tornare in contatto con i suoi familiari i quali molto probabilmente vengono anche loro divorati, scopre attraverso la veduta dall’alto del suo balcone, l’orrore e la frenesia che si vanno diffondendo per le strade e il cortile, in uno scenario in cui si profila un racconto di assedio e solitudine. Con la televisione perennemente accesa a sancire una dipendenza dai media mai in discussione, Joon-woo, abile con il suo social network, tenta di restare informato sugli sviluppi; si barrica in casa e non gli resta che aspettare fantomatici soccorsi, mentre il tempo scorre e persino il cibo scarseggia.
Il digiuno forzato e l’agonia delle vittime che si trasformano in nuovi morti viventi, definisce la temperatura tesa di un incubo ad occhi aperti, dove al risveglio ci si ritrova prigionieri di una vita mai concepita con quelle caratteristiche ribaltate. Se la frenesia e lo sgomento di Train to Busan (2016) hanno travalicato la Corea del Sud generando proseliti e portando la fama del nuovo horror koreano in Occidente, in #Alive è l’elemento psicologico a coniugarsi con il senso del ritmo per il ritratto di una condizione in cui, quando ormai la speranza sembra perduta, il giovane scopre di non essere l’unico sopravvissuto del quartiere; la sua lotta per la sopravvivenza trova un’alleata nella ragazza che vive nascosta nell’appartamento antistante, con cui inizia un dialogo e scorge il filo di una nuova speranza. Il film, abile nel condurre con ritmo sostenuto e “pompato” le frenetiche e disperate evasioni dall’appartamento di Joon-woo – tutto preso nel tentativo di cercare sostentamento per sopravvivere alle orde di zombie che affronta cercando di approfittare della sua lucidità e andando incontro a trappole in cui ha la destrezza di sottrarsi – trova il suo passo avventuroso nell’incontro del giovane con la dirimpettaia. E mentre lei salva lui donandogli il suo cibo, lui cerca in tutti i modi di salvare lei sin da quando, attraverso la fune gettata per creare un ponte tra le loro abitazioni, uno zombie oltremodo sinistro si arrampica verso l’appartamento della ragazza che nel frattempo ha perso i sensi.
Nel racconto, teso e conciso, si assiste a una serie di situazioni in cui la lotta contro gli zombie non rifugge i toni di una vicenda intima, dove è immediato per lo spettatore identificarsi con il giovane protagonista in trappola il quale, incontrando la ragazza, ritrova quell’aspetto di comunicazione in grado di dare uno scossone alla sua solitudine, e per la quale il giovanotto mette in gioco tutte le sue armi, come il drone che si rivela elemento di scambio, oppure i social network, visti come uno strumento di comunicazione e sopravvivenza. I balconi del condominio sono i nuovi labirinti in cui si affollano le orde di morti viventi o dove avvengono gli incontri con alcuni di essi buffi o impacciati. L’aspetto dei mostri è inquietante, soprattutto nelle vedute in cui scorgiamo orizzonti di occhi bianchi, ma ugualmente queste creature sono un po’ impacciate, facilmente raggirabili nonostante i guizzi famelici che li caratterizzano. La freschezza del film origina anche dall’adozione di dinamiche di uno zombie-movie fatto di fughe e combattimenti che si avvicendano ai colpi di scena per restituire una tensione drammatica affiancata dal legame romantico platonico che unisce i due protagonisti; due interpreti, i giovani Yoo Ah-in e Park Shin-hye, talmente in parte da motivare l’adesione dello spettatore ad una lotta per la sopravvivenza in più punti cruda, che non risparmia la mattanza a scopo difensivo e gli inseguimenti a rotta di collo di questi zombi sempre pronti a cogliere l’occasione per cibarsi dei malcapitati sopravvissuti.
Ad un certo punto la coppia, inseguita ripetutamente dai mostri cannibali, trova riparo in un appartamento presidiato da un uomo che offre loro un riparo e dell’acqua ristoratrice. Succede però che si tratti di una trappola, con l’uomo che tramortisce i due ragazzi ed è pronto a darli in pasto alla sua compagna trasformatasi nel frattempo in una zombie da troppo tempo a digiuno. Il ribaltamento della situazione crea un colpo di scena che vede l’uomo, dalla cui prigionia i due giovani si liberano presto, finire in pasto alla moglie zombie, in un’acme drammatica che coincide con il sacrificio dell’individuo, consapevole di trasformarsi in nutrimento per l’adorata compagna un tempo umana. Un gesto estremo che invece di parodiare l’amore in una sua variante estrema, ci parla beffardamente del sentimento di un uomo per la sua amata ormai mutata e oggetto – come lui – di un processo irreversibile. Aspetti di denuncia sociale sono comuni in questi film di zombie, che abbiamo visto abitare ogni parte del globo con l’apocalisse che, senza troppe spiegazioni, giunge all’improvviso, mente la tecnologia sembra affiancare la nostra dissoluzione, obbligando a muoverci in spazi limitati e angusti di cui rifuggiamo i limiti seduti dinanzi alla console del computer.
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