Silvio Orlando si è aggiudicato, alla 67 esima edizione del David di Donatello, il premio come Miglior Attore Protagonista per la sua interpretazione in Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Si tratta della terza vittoria dell’attore ai David, su un totale di dodici nomination.
Di Costanzo è un regista e direttore della fotografia di origine partenopea e formazione francese dal cinema raffinato e dalla produzione poco prolifica. I suoi lavori sono intrisi di quella cultura che parte da Napoli per arrivare al mondo e ogni inquadratura è un doloroso ed esplicativo ritratto che parla, vastamente, di umanità.
Ariaferma è la storia di una manciata di guardie e prigionieri che devono rimanere, per caso e per forza, in un carcere in via di dismissione, fino a quando non arriverà dall’alto l’ordine di trasferimento per tutti. Essendo solo per pochi giorni, i colloqui sono sospesi e le cucine chiuse, il cibo arriva precotto da una ditta. A capo delle guardie viene nominato, per anzianità ed esperienza, Gargiulo (Toni Servillo) che dovrà resistere ad una serrata gara di personalità, nonchè attoriale, con il detenuto la Gioia (Silvio Orlando), leader dei carcerati. I due grandi attori sono insieme sul set per la prima volta.
Notevoli anche le interpretazioni del resto del cast, affiatato e commovente, tra cui spicca la guardia integerrima Coletti (Fabrizio Ferracane).
Si tratta, appunto, di resistere, non tanto agli imprevisti, come lo sciopero della fame dei detenuti, la corrente che salta all’improvviso avvolgendo il carcere nelle tenebre e lasciando imprigionati al suo interno carcerieri e carcerati, quanto di continuare a mantenere quel distacco e quella distanza che la legge e la morale vuole tra chi sta fuori e chi sta dentro. Ma chi sta veramente fuori e chi sta veramente dietro le sbarre?
Col passare del tempo e i cambiamenti di circostanza, in un clima di grande violenza potenziale e inesplosa, che avvolge il film come una nebbia asfissiante, quello che emerge e che resta in quel piccolo mondo isolato, è l’anima, a nudo, di ognuno.
Se fosse stato un film americano, da un momento all’altro saremmo passati alle botte, agli avvelenamenti o a qualche gioco pirotecnico che avrebbe contrapposto il bene al male, diviso i buoni dai cattivi, ma per fortuna non è così.
Male e bene si fondono in uno dei più alti ed importanti sentimenti di cui l’essere umano sia capace: la compassione. Per citare il geniale scienziato Charles Darwin: “La compassione e l’empatia per il più piccolo degli animali è una delle più nobili virtù che un uomo possa ricevere in dono… Il progresso del senso morale non sarà compiuto fino a quando non allargheremo la nostra compassione ai popoli di tutte la razze, poi alle persone prive di intelligenza, agli storpi, agli individui che non hanno un ruolo ben definito nella società. E infine ai membri di tutte le specie.”
E così l’inizio del film e il suo epilogo si ritrovano, in un finale in apparente sottotono che lascia stupiti e quasi storditi.
Il ritratti fotografici e fissi di quel carcere ottocentesco semi abbandonato, disumano e terrificante, si contrappongono a squarci occasionali di una natura selvaggia, generosa e bella, che circonda tutti.
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