The red shoes (2005) è stato presentato in anteprima al “Noir in Festival” di Courmayeur ed è il secondo lungometraggio del regista coeano Kim Yong-gyun il quale esordì nel 2001 con un film interamente scritto e diretto da lui, l’introspettivo Wanee wa Junah in cui si raccontava con note malinconiche la relazione tra due ragazzi presto afflitta da un passato che la parte femminile della coppia non riusciva a dimenticare e che prendeva il sopravvento in una scena in cui le note caratteriali minute erano il motivo principale dell’attenzione del cineasta. Quella predilezione per le psicologie è riversata nella trasposizione horrorifica della celebre fiaba di Andersen, Scarpette rosse, dove il racconto di fantasmi è tutt’uno con la predilezione asiatica per racconti di avidità e anime che continuano a vivere portando in luce gli aspetti di una maledizione terrificante.
In primo luogo il film riversa nella sua estetica elettrizzata la dedizione per aspetti che rilanciano bagliori dissepolti di una o più fiabe antiche ispiratrici, e la ricercatezza visiva è un tratto che omaggia dichiaratamente l’horror, non soltanto asiatico, al punto che nel film assistiamo ad assalti demoniaci e a una scena di decapitazione che ai più attenti potrà far tornare alla mente persino Inferno di Dario Argento. Se l’horror sembra distante dalla dimensione intima dell’esordio registico di Kim Yong-gyun, è poi la relazione a dir poco conflittuale tra la madre e la figlia in The red shoes a catalizzare l’attenzione, a degenerare portando con sé i sentimenti repressi e negativi che il film ridesta. L’oculista Sun-jae è sposata ma infelice, con un marito che la tradisce e una figlia che la mal sopporta. Dopo aver scoperto il marito tra le gambe di un’altra donna, Sun-jae si traferisce con la figlioletta figlioletta Tae-soo in un’altra città. Le paure della donna sono sempre sotto gli occhi dello spettatore in un film buio dove Sun-jae ci appare come un’anima angosciata, che perde molto presto la figlia per strada e la stessa bambina sembra una proiezione delle sue paranoie. Nella nuova città, Sun-jae trova per caso un paio di scarpe rosse e le raccoglie ignorando la maledizione che si scaglia contro chiunque le veda: esse scatenano la peggiore avidità.
L’impegno del regista è di primo acchito quello di interpretare la fiaba di Hans Christian Andersen utlizzandola per riversarvi stilemi e spaventi dell’horror coreano. Il regista sceglie la via della distorsione, secondo la quale piega i personaggi e il set alle note surreali, obbedendo a una rappresentazione affascinante quanto esasperata degli stati d’animo, e talvolta riesce ad immergere la vicenda, sempre più labirintica mano a mano che il racconto prosegue, in note terse di spavento. E’ come se l’orrore dei volti di donna nascosti dai capelli e pronti a tramutarsi in spettri, abitasse il film da ospite atteso e desiderato, mentre la particolarità del film è nel riflettere l’identità incerta della protagonista, la cui immagine appare al centro del terrore ottenuto dal buio, dalle luci intermittenti che sprofondano gli occhi della protagonista in un bagno di torpore. E’ l’oculista di cui percepiamo gli stati di alterazione, ad essere il nucleo delle attenzioni della regia, che esprime l’intenzione di Kim Yong-gyun di portare note di eleganza al cospetto di una protagonista brava e intensa, Hye su Kim, con movimenti di macchina attenti e qualche soluzione acerba, dove una certa poesia visiva si alterna ad attimi in cui la maledizione delle scarpe rosse avvolge il film nel filo di una matassa che comprende oggetti legati a una maledizione.
The red shoes si pone infatti come ultimo/non ultimo in una serie di lungometraggi in cui gli oggetti nascondono l’inizio di una persecuzione che prende avvio dal primo individuo malcapitato e presenta titoli quali Ring, in cui si narrava di una letale videocassetta e di una presenza mortale nascosta da capelli spettrali, o Phone e The Call, che liberavano le potenzialità persecutorie di minacciosi telefoni cellulari. Non interviene peraltro l’ironia a stemperare l’angoscia: l’incontro con lo spettro è assicurato e nel caso del film di Kim Yong-gyun si vuole rendere moderna la rilettura della fiaba, a cominciare dagli oggetti feticcio che, ritrovato in metropolitana dalla protagonista che è anche una collezionista di calzature artistiche, provoca le morte a chiunque le rubi. Le scarpe rosse vendicano cioè un peccato che nella crudele fiaba vedeva una ragazzina ritrovarsi con i piedi amputati ad altezza delle caviglie, e una sequenza di tale inquietudine la si ritrova all’avvio del film, che lascia prospettare il ritorno di una dominante persecutoria lungo di tutto il racconto.
Purtroppo però lo stesso racconto si affloscia non potendo evitare situazioni e luoghi comuni del genere, nonostante il lavoro di eleganza ricercata dal fotografo Kim Tae-Kyung e dalle scenografie originali di Lim Hyung-tae e Jang Pak-ha. A loro si deve parte del fascino di una pellicola che non molla il lato psicologico e affonda qualche volta il colpo nello spavento, ingenerando inquietudine. La fotografia cala nell’ombra l’effetto ravvicinato del pedinamento tra il personaggio e il suo doppio, lasciando intendere una percezione sempre più frammentata della protagonista, che a un certo punto si ferisce gli occhi ma molto presto i suoi rapporti esasperati con i suoi persecutori psichici (l’ex marito, ma anche la figlioletta e il nuovo compagno), prendono il sopravvento trasformando il film in un telaio criptico in cui i personaggi sono come maschere teatrali. Le scenografie portano un elemento surreale e temperature sadiche pronte sostenere gli effetti gore che omaggiano non soltanto Inferno, ma anche Suspiria dello stesso Dario Argento, a cominciare dalla scuola di ballo e dai vetri ferali. E in questa cupa processione di superfici, la tensione si costruisce per gradi, portando il fascino dell’ambientazione e di quanto le scarpe rosse nascondono e improvvisamente liberano sullo schermo.
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