Disponibile su RaiPlay Nel nome del padre, un film del 1972, diretto dal regista Marco Bellocchio. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare. Prodotto da Franco Cristaldi, scritto e sceneggiato da Marco Bellocchio, con la fotografia di Franco Di Giacomo, il montaggio di Franco Arcalli, le scenografie e i costumi di Enrico Job e le musiche di Nicola Piovani, Nel nome del padre è interpretato da Yves Beneyton, Renato Scarpa, Lou Castel, Laura Betti, Piero Vida. Il film è stato girato nei primi mesi del 1971 a Roma presso l’ex liceo Massimo in piazza dei Cinquecento e nel teatro Carlo Goldoni ed anche a Bobbio.
Trama
Anno scolastico ’58-’59. Angelo è stato rinchiuso in un collegio di lusso per avere preso a calci e schiaffi suo padre. Anche all’interno dell’istituto il ragazzo resta coerente al suo comportamento: strumentalizza gli amici e induce un compagno ad uccidere la madre isterica e seccatrice. Con un maschera da cane si aggira per le stanze portando in spalla il cadavere di un sacerdote, il professor Matematicus. Angelo riesce ad allestire anche uno spettacolo blasfemo che disgusta gli insegnanti.
«In quegli anni si usciva da un’illusione e da una sconfitta ancora senza morti e feriti, ma che preparava a una profonda generale depressione con esiti diversi: il terrorismo, la droga, la psicanalisi, il ritorno all’ordine. Per me dopo la negazione della mia identità di artista (borghese) nei mesi della militanza marxista-leninista, ritornare al cinema fu, in un certo senso, una salvezza personale (la sopravvivenza al nulla), raccontando però in Nel nome del padre per il mio stato d’animo di allora, una società finita, nella metafora di un’istituzione chiusa: il collegio religioso (più che un carcere un manicomio). Ritornare in prigione era la dichiarazione della mia sconfitta rinchiudermi volontariamente in un’istituzione mediocre, violenta a cui avevo cercato di ribellarmi negli anni precedenti senza successo, riconoscendo soltanto ai servi, ai sottoproletari una simpatia, una solidarietà a cui mi sentivo obbligato per i miei sensi di colpa di borghese privilegiato, di uomo senza stima verso se stesso. I servi (i vinti) sono gli unici personaggi che non sono visti con disprezzo. Anche loro sconfitti. Estremo pessimismo.»
(Marco Bellocchio)
«Marco Bellocchio con questo In nome del padre ha fatto il suo film migliore, più motivato e più importante. Dal punto di vista formale è interessante notare con quanta naturalezza il regista passa da una dimensione naturalista a quella espressionista e viceversa, riuscendo così a rappresentare l’oggetto e insieme a fornire il significato, a descrivere il reale e al tempo stesso a mostrarne le possibilità fantastiche. Espressioniste sono la sequenza degli schiaffi tra il padre e Angelo, la recita, la profanazione del cadavere. Sono cose che “non” avvengono nella realtà; e tuttavia non la smentiscono bensì la prolungano grazie alla coerenza visionaria propria dell’immaginazione. Ma un’esperienza diretta, materiata di schifata memoria sottostà a questa rappresentazione. Marco Bellocchio parla di cose che conosce benissimo; e quel che più importa, ne parla con una consapevolezza critico-storica rara tra i nostri registi.»
(Alberto Moravia – L’Espresso, 24 settembre 1972)
«Succosa metafora della condizione religiosa e sociale degli anni sessanta, In nome del padre è un film provocante, dunque vitale e dove i simboli sono trasparenti. Scavalcando il reale plausibile è di fortissimo risalto espressionsitico, crudo nell’affresco dell’ambiente, feroce nel taglio dei tipi. Una fantasia potente lo governa.»
(Giovanni Grazzini – Corriere della Sera, 9 settembre 1972)
«Il cinema del giovane Bellocchio, animato da spiriti naturalistici, si svolge nell’ordine dei contenuti, la sua contestazione morde il sistema ai polpacci: la famiglia ieri […] la scuola autoritaria oggi, in questo suo terzo e notevole lungometraggio. […] l’allegorismo del regista piacentino è per fortuna tale che si fa ammirare di per sé indipendentemente dai secondi significati, nella continua e sempre fervida combinazione dei suoi elementi plastici. […] il complesso è frappant e ribadisce la straordinaria felicità di un temperamento cinematografico. Ottimi gli interpreti.»
(Lietta Tornabuoni – La Stampa, 13 settembre 1972)
«In nome del padre segna sugli altri due un progresso, o meglio, una maturazione che è politica, ma anche espressiva…»
(Morando Morandini – Il Tempo, 3 gennaio 1972)
«Film aspro e di una splendida aggressività. Contratto in una smorfia, forsennato, lirico. La sequenza del pranzo di Natale nel refettorio delle vittime – schiavi – ha la stessa potenza che in Buñuel, pensiamo al banchetto in Viridiana. La visita “mistica” della Vergine all’allievo che si masturba, l’abbattimento del fico miracoloso, lo stravagante delirio surrealista della recita scolastica: tutti magnifici esempi di cinema
che scuote.»
(Jean-Louis Bory, Le Nouvel Observateur, 11 febbraio 1973)
«C’è in questo film una ricchezza d’intenzioni che ne rende qualche volta oscura l’anunciazione. Ma il furore, la veemenza dell’autore passano nelle immagini. Come riconosce lo stesso Bellocchio, Franc e Angelo coabitano in lui. A Franc potremmo attribuire la prima parte del film, dimostrativa e sarcastica; ad Angelo la seconda, la più terrorista e caotica. L’insieme costituisce un’opera in cui il soffio ci tocca, la cui forza sovversiva ci scuote e i cui stessi oltraggi ci seducono. Marco Bellocchio ha tolto i pugni dalla tasca. E colpisce duro.»
(Jean de Baroncelli, Le Monde, 3 febbraio 1973)
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