Il film più radicale di Wes Craven
Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977), secondo lungometraggio horror di Wes Craven, realizzato dopo l’incursione nel singolare hard-core La cugina del prete, è un capitolo radicale nella storia dell’horror americano degli anni Settanta. Primo grande successo del cineasta, si pone come il titolo selvaggio di una conferma realistica del filone, così come negli anni Ottanta Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, 1984) diverrà il film della svolta onirica e soprannaturale. Craven realizza un film politico ambientato ai tempi dell’ultima amministrazione Ford grazie a cui fare nuovamente i conti con un certo tipo di famiglia e le sue mostruosità. Ed è proprio dedicandosi al concetto di mostro che Craven elabora la sua poetica in cui l’intolleranza mascherata viene devastata con graffi e deturpazioni pronte a portare in primo piano figure del terrore innegabilmente a noi vicine, quanto lasciate a ferma distanza dalla società dell’apparenza perbenista. I suoi personaggi non sono degli ammirevoli anti-eroi, perché i Carter de Le colline hanno gli occhi, in viaggio dall’Ohio attraverso il deserto del Nevada in direzione di Los Angeles, sono un nucleo significativamente aggregato e reazionario, che si contrappone agli abitanti delle colline. Quest’ultimi sono invece folli ex minatori in attesa di tirare in trappola i malcapitati come i Carter in una landa di deserto abbandonata a seguito di esperimenti nucleari avvenuti negli anni Cinquanta.
Craven continua il processo di decostruzione della famiglia e lo fa attraverso un sommovimento che procede con la fuga dalla città e l’attraversamento di uno spazio che sin da subito manifesta la trasgressione di un divieto, quello suggerito al capofamiglia Bob dall’anziano Fred, il poveraccio responsabile dell’unica stazione di servizio il quale si raccomanda con lui che non segua la scorciatoia nel deserto nel suo tragitto verso Los Angeles per celebrare le nozze d’argento. Ma questo invito rimane inascoltato, palesandosi subito, nel rapporto tra individui agli antipodi, l’opposizione tra due mondi che preconizza la futura resa dei conti richiesta ai personaggi del film. I Carter, allora, per abbreviare i tempi sotto la calura, deviano dal percorso più lungo ma anche dal solo garantito, per via della cocciutaggine arrogante ed egocentrica di Bob, non a caso poliziotto in pensione che non si separa mai dalla pistola, assieme alla moglie Ethel, al figlio Bobby e alle figlie Brenda e Lynne accompagnata dal marito Doug, la neonata Kate e i due cani lupo Belle e Beast. Una squadra di benpensanti si mette allora in pericolo, ignara di confrontarsi di lì a breve con gli abitanti delle colline pietrose che si presenteranno come indiani vendicativi alla volta dell’auto con annesso trasporto, quella che Bob Carter guida in modo arrischiato e con toni smargiassi come una diligenza pronta a ritrovarsi tra le sembianze di un horror polveroso che somiglia a un western delle opposizioni binarie. Un film atipico, quello di Craven, che ancora oggi inquieta e coinvolge lo spettatore tanto da originare film derivativi, un seguito e persino un remake, dove la guerra imminente tra mondi squaderna culture e prospetta la fine dell’ottimismo trionfale di un genere.
Giustamente il critico Roberto Pugliese definì Le colline hanno gli occhi un “anti-western”, cogliendone la modernità nell’aspetto di opera sulla disgregazione della famiglia, dove la contrapposizione bellica diviene totale e finale, riguardando “ere, ambienti, metodi e (in)civiltà contrapposte”. La contrapposizione riguarda in primo luogo la definizione dei luoghi in cui è ospitata la vicenda esistenziale dei personaggi, con l’auto e la roulette dei comfort in contrasto con la capanna in cui si ritrovano tracce del cannibalismo animalesco che caratterizza gli abitanti delle colline. La contrapposizione è tanto antropologica quanto estetica, con l’avvenenza del figlio maschio Bobby (Robert Houston), il biondino intraprendente pronto a difendere la famiglia Carter dalle violenze presto subite, in contrasto con l’evidente deformità di Plutone (l’interprete Michael Berryman, affetto da displasia ectodermica ipoidrotica) il figlio del guerrafondaio Papa Jupiter accompagnato anche dalla sua compagna senza nome (Mama), e dagli altri figli Mars, Mercury e da Ruby, quest’ultima la sola femmina dal carattere più sensibile in evidente tensione con l’attitudine criminale della famiglia degli ex minatori.
I mostri sono dunque intransigenti predoni fuorilegge e cannibali, ma a ben vedere anche i Carter, obbedendo alla legge del padre, seguono una norma che trasgrediscono a proprio piacimento, con l’arroganza delle loro maniere, mentre il contrasto tra i bruti (tra cui il già citato Papa Jupiter con il naso tagliato e dalla cicatrice sporgente in sensibile assonanza con la mostruosità di Leatherface) e i Carter dai volti puliti e dai bei modi che trasudano di educazione religiosa, spiana una dissonanza in cui si disvela tanto la mostruosità dei secondi, quanto il selvaggio e incurabile stato di abiezione dei primi. Craven, che gira il suo film a basso costo nel deserto del Mojave, si scaglia contro la bella famiglia in procinto per celebrare le nozze d’argento dei genitori, ma questa volontà di idillio, che vede Bobby come il prefetto biondo dagli occhi azzurri, trova la sua nemesi nei fuorilegge deformi, estranei alle (presunte) buone maniere dei Carter e scatenanti quella violenza contro cui Bob organizza una resistenza che porrà su un piano di violenza inusitata le due “fazioni”. Craven ha la felice intuizione di collocare il racconto in un crocevia di generi, e il film anticipa quella commistione post-moderna che qui lascia coagulare il revenge movie, lo slasher, il western revisionista e il road movie, come notò in una felice intuizione il critico John Kennet Muir. Ne L’ultima casa a sinistra si intravvedeva il riflesso del Vietnam, l’insoddisfazione e la devastazione come terreni prossimi, mentre adesso il racconto procede in chiave politica lasciando trapelare in maniera più evidente un richiamo alle conseguenze degli esperimenti nucleari, così che il racconto visionario e aspro si apre delineando le sagome delle colline con la musica gravida di minacciosità di Don Peake, da cui si annuncia il tema del titolo, quello di presenze che ci scrutano sinistramente mentre noi osserviamo le colline brulle. Si tratta di un’idea illuminante, dal fascino prorompente e disturbante, in cui si incunea metaforicamente la componente spaventosa di un archetipo colto nel paesaggio post-atomico, animato all’inizio unicamente dai movimenti fluttuanti delle balle di fieno. Fred, signore anziano disilluso e senza più un soldo, è infatti intenzionato all’inizio del film a lasciare la stazione di servizio, non più redditizia e minacciata evidentemente dalla povertà, nonché, come si scoprirà, dalle presenze disturbanti e minacciose di un territorio reso brullo dalle manovre del governo che in quelle zone ha condotto sinistri esperimenti (“Questa faccenda non mi piace per niente”, lamenta l’uomo). I Carter non badano troppo alle parole di Fred e nella loro rotta accelerata non si accorgono di essere spiati dai predoni, che percepiamo dalla soggettiva attraverso il binocolo, e che non ritroveremo troppo presto, ma le cui apparizioni si dilatano e divengono progressivamente più insinuanti. Si comportano con astuzie da pellirosse pronti all’assedio, approfittano del guasto all’automobile e iniziano a studiare come vincere la lotta così da uccidere ad uno ad uno i malcapitati delle cui carni si ciberanno. Spiazzante e coraggioso, urtante ed eccessivo, Le colline hanno gli occhi mostra l’orrore ma anche l’umanità delle vittime, così evidente nel personaggio della donna la quale, conservando una sensibilità nell’orda dei cannibali, determina l’evoluzione del racconto. Per chi scrive, è questo il film più significativo e risolto di Wes Craven.
Su youtube il film completo:
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