Disponibile su Youtube Questa è la mia vita (Vivre sa vie), un film del 1962 scritto e diretto da Jean-Luc Godard, interpretato da Anna Karina, all’epoca moglie del regista, vincitore del premio speciale della giuria alla 27ª Mostra di Venezia. Il film prende spunto da un’inchiesta giornalistica, Où en est… la prostitution? del giudice Marcel Sacotte, pubblicata nel 1959, che analizza almeno duemila casi di prostituzione a partire dall’anno 1950. Il film è strutturato in dodici “quadri” (tableaux nel titolo originale), ispirati alla struttura a episodi di Francesco, giullare di Dio (1950) di Roberto Rossellini e introdotti da didascalie su modello di quelle usate nel cinema muto. Con Anna Karina, Sady Rebbot, André S. Labarthe, Guylaine Schlumberger.
Trama
Nanà, una commessa parigina, che non sapendo come pagare l’affitto, decide di fare la prostituta. La voglia di tornare a fare una vita normale è grande, ma Nanà è costretta a fare i conti con il suo protettore che non ne vuole sapere di lasciarla libera. Anzi il losco individuo cerca di venderla a un altro suo “collega”.
Al momento di fare Vivre sa vie da che cosa partiva?
Non sapevo esattamente quel che avrei fatto. Preferisco cercare qualcosa che non conosco piuttosto che fare meglio qualcosa che già conosco. In realtà, il film è stato realizzato al primo colpo, come se fossi trasportato, come un articolo scritto di getto. Vivre sa vie ha rappresentato per me l’equilibrio che d’un tratto ci fa sentir bene nella vita, per un’ora, un giorno o una settimana: Anna, a cui va un sessanta per cento del merito del film, era un po’ scontenta, perché non sapeva esattamente ciò che avrebbe fatto. Ma è stata talmente sincera nella sua volontà di recitare una parte che alla fine è stata questa sincerità a fare la parte. Quanto a me, senza sapere esattamente quel che avrei fatto, ero talmente sincero nel mio desiderio di fare il film che, fra tutti e due, ci siamo riusciti. Abbiamo ritrovato alla fine quel che avevamo messo all’inizio. Mi piace molto cambiare attori; ma con lei lavorare insieme è qualcosa di diverso. Credo che per la prima volta essa sia stata assolutamente cosciente dei propri mezzi e li abbia utilizzati. La scena dell’interrogatorio in Le petit soldat, per esempio, è fatta alla Jean Rouch: lei non sapeva quali domande le sarebbero state fatte. Qui invece ha recitato un testo come se non conoscesse le domande. Alla fine, si ottiene altrettanta spontaneità e naturalezza.
È una sorta di “stato secondo”, ad aver fatto il film, e Anna non è la sola ad aver dato il meglio di sé. Coutard ha fatto la sua migliore fotografia. Quel che mi sorprende, rivedendo il film, è che sembra il mio film più composito, mentre per me non lo era affatto. Ho preso un materiale bruto, dei ciottoli perfettamente levigati che ho messo gli uni accanto agli altri, e questo materiale si è organizzato. E poi – cosa che mi colpisce solo ora – generalmente facevo attenzione al colore delle cose, anche nel bianco e nero. Qui no. Quel che era nero era nero, quel che era bianco era bianco. Tutti hanno lavorato con i vestiti che indossavano abitualmente, salvo Anna, che si è comprata una gonna e un maglione.
Perché la divisione in dodici quadri?
In dodici non so, ma in quadri, sì: per accentuare l’aspetto teatrale, l’aspetto brechtiano del film. Volevo mostrare qualcosa come “le avventure della signorina Nana Taldeitali”. Anche il finale è molto teatrale: era necessario che l’ultimo quadro lo fosse più di tutti gli altri. Inoltre, questa divisione corrisponde all’aspetto esteriore delle cose che mi avrebbe permesso di rendere meglio la sensazione dell’interiore, al contrario di Pickpocket, dove tutto è visto dal di dentro. Come rendere l’interno? Be’, appunto restando prudentemente all’esterno.
I più grandi quadri sono dei ritratti. Prendete Velázquez. Il pittore che vuol rendere un volto rende unicamente l’esterno della persona; eppure c’è qualcos’altro che si trasmette. È molto misterioso. È un’avventura. Il film era un’avventura intellettuale: ho cercato di filmare un pensiero in movimento; ma come riuscirci? Non sempre si sa.
(J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981)
“Che ciascuno viva la sua vita purché gli vada sempre meglio. La Nouvelle Vague? Pierre dice bene di Georges che delira per Julien che fa il supervisore di Popaul che fa una coproduzione con Marcel di cui Claude ha fatto l’elogio. Ebbene, e di Jean-Luc che oggi canto le lodi, Godard che gira pellicole, esattamente come me, ma con una frequenza doppia. Quando facevo il critico cinematografico, volevo a tutti i costi convincere, probabilmente perché ignoravo i veri problemi che si pongono al cineasta e cercavo istintivamente di convincere anzitutto me stesso che quel film era buono e quell’altro non lo era. La gioia fisica e il dolore fisico che procurano certi momenti di A bout de souffle e di Vivre sa vie, non mi proverò nemmeno a comunicarli con la scrittura a chi non li prova.
L’irrealtà totale, voluta o meno, di certi stili cinematografici è seducente, ma determina un certo malessere. La realtà più cruda ci seduce per un momento ma può alla fin fine lasciarci insoddisfatti. Un film come Vivre sa vie ci intrattiene costantemente ai limiti dell’astratto, poi ai limiti del concreto ed è senza dubbio questa oscillazione che crea l’emozione. Il cinema eccitante, ecco ciò che interessa, che appassiona, sia che questa emozione venga creata scientificamente, come in Hitchcock e Bresson, o che nasca semplicemente dalla capacità dell’artista di comunicare le sue emozioni come in Rossellini o in Godard. Ci sono dei film che ammiriamo e che ci scoraggiano: a che scopo continuare dopo di lui?, ecc. Non sono i migliori, perché i migliori danno l’impressione di aprire nuove strade e che il cinema cominci o ricominci con loro. Vivre sa vie è di questi”.
(F. Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978)
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