Trama
“Rob Feld è un ex chef di Portland che passa le giornate in solitudine a raccogliere tartufi. Vive in una capanna spartana nelle foreste dell’Oregon, va a caccia di tartufi con l’aiuto del suo maiale da caccia per poi venderli ad Amir, un giovane fornitore di ingredienti di lusso per ristoranti di alta fascia. Una notte, Rob viene aggredito e gli rubano il maialino. Si rivolge perciò ad Amir, che lo aiuta a localizzare un gruppo di tossicodipendenti sospettati di essere i colpevoli. Essi si difendono dicendo di aver dato il maiale a qualcuno di Portland.
Rob e Amir si recano quindi a Portland ed entrano in uno scantinato dove si pratica il combattimento clandestino tra dipendenti dell’hotel e cuochi (?!) gestito da Edgar, una vecchia conoscenza di Rob, che fornisce un indizio sul luogo in cui si trova il maiale…”
Sarà simbolico e struggente che Rob, fermo al trauma della perdita di sua moglie, e in seguito a quella del maiale, non si cambi mai i lerci abiti che indossa, nè si lavi i capelli lunghi ed unti, nè che si tolga le striature di sangue e sporcizia che gli rigano il volto. Ma è ancora più aberrante il fatto che in queste condizioni egli si sieda al tavolo di un ristorante esclusivo, senza suscitare alcun tipo di reazione, e soprattutto che in queste condizioni cucini i suoi raffinatissimi piatti. Mai lo si vede lavarsi almeno le mani. Non è una questione di igiene elementare, ma di credibilità del film. Infatti, nonostante l’aspetto, e presumibilmente l’odore, da clochard, il nostro eroe cucina e si attira anche la fiducia dei bambini. Robert non è solo uno chef famoso e leggendario – il suo nome suscita silenzi e brividi – ma è anche uno psicologo carismatico, un filosofo, un guru e un lottatore.
Tutto questo, ovvero le superdoti dell’eroe protagonista, non susciterebbe stupore, facendo parte di un plot narrativo di genere universalmente accettato e godibile, se non fosse per il fatto che il film si fa forte proprio di una trama che vorrebbe essere anticonvenzionale. In realtà, l’unica cosa non convenzionale in questa narrazione fatta di stereotipi e banalità, è il fatto che l’eroe non si vendichi, e che si faccia prendere a cazzotti ripetutamente senza reagire, e questo comportamento passivo e “no violence”, che lascia un po’ interdetti sul finale, dovrebbe invece essere di insegnamento, un esempio di crescita personale e vita del protagonista che così si evolve e supera i traumi. Non diciamo che avrebbe dovuto imbracciare il fucile alla John Wick, ma neppure un buffetto, neppure uno dei suoi sermoni pseudofilosofici, che sarebbe stata una punizione più che sufficiente, ai colpevoli della storia, che restano impuniti.
Pig, a metà strada da tra John Wick e Ratatouille (2007), è pieno di dialoghi strampalati e comicità involontarie ed è uno di quei film che se proiettati in una sede studentesca, susciterebbe boati di risate.
Nonostante ciò, il film è stato premiato a National Board, ha ottenuto 1 candidatura a Critics Choice Award, 2 candidature e vinto un premio ai Spirit Awards, e ha ottenuto 1 candidatura a Directors Guild.
Cage è un attore di razza, un animale da palcoscenico con una carriera pluridecennale alle spalle, e non è certo la prima volta che il suo fisico possente (qui munito di pancetta finta) e il suo volto fatto per il cinema meritano un plauso. Dai tempi di Stregata dalla Luna di Norman Jewison (1987) la sua recitazione sottotono e dolente buca lo schermo. Ma è un artista che sperimenta, osa, dice molti sì, forse troppi, e quindi spesso inciampa in ciarpame o blockbusters. La sua performance durante il film è ineccepibile ed è l’unica cosa in grado di commuovere un po’ gli animi, istupiditi e trasecolanti di fronte a una storia così velleitaria e grottesca, insieme naturalmente al grazioso maialino che viene rapito.
Quentin Tarantino ha definito Pig uno dei migliori film degli ultimi cinque anni. Ha anche elogiato il finale perchè capovolge l’antefatto iniziale: Il film si configura come tutte le vendette-matiche che Nic Cage sembra aver fatto negli ultimi cinque anni… questo si prefigura come tale, ma non lo fa nel modo più creativo possibile.
Ma Tarantino è un amante del cinema bizzarro e di genere, quindi non può non aver apprezzato queste che sono le doti peculiari di Pig. Sembra anche che basti deporre le armi e citare un paio di massime sconnesse sul senso della vita per meritarsi premi ed etichette da film d’autore, il che è decisamente una fortuna per il regista Michael Sarnoski, alla sua opera prima, ma un po’ meno per noi spettatori, che amanti dei film di genere oppure di quelli autoriali, non avremmo mai meritato questo ibrido velleitario e sconclusionato, come non lo meritava neppure il povero maialino protagonista.
“Pig vi farà piangere”, recita una recensione statunitense. Questo è vero, ma non per le ragioni che si potrebbero supporre.
Lascia un commento