Quando nel 2021 Squid Game fece il suo debutto, nessuno poteva immaginare l’impatto culturale che avrebbe avuto. Non era solo una serie, ma un vero e proprio manifesto di denuncia, un esperimento sociologico sottoforma di sadico intrattenimento. Con la terza stagione uscita a giugno di quattro anni dopo Hwang Dong-hyuk chiude il cerchio offrendo al pubblico non solo la prosecuzione di una storia ormai amatissima a livello mondiale, ma anche una riflessione finale su ciò che questa serie rappresenta, ovvero il capitalismo estremo, la disumanizzazione delle relazioni e la rara possibilità di riscatto umano.
Il regista ha confermato che questo è stato l’epilogo e non sono previste varianti per quanto il finale lo lasci intendere, ma resta aperto alla possibilità di fare degli spin off dei personaggi più amati e accattivanti della serie come Il frontman è il reclutatore per poter dare una spiegazione alle loro azioni apparentemente fredde e incomprensibili che portano con loro il retaggio di ciò che questi personaggi hanno vissuto prima di avere questi ruoli fondamentali per i giochi.

Per questa terza ed ultima stagione, che poteva benissimo essere inclusa nella seconda senza tagliare la storia e tenerla sospesa per sei mesi, la narrazione riprende esattamente dove si era interrotta, con Gi-Hun sopravvissuto e segnato dal sangue e dai sensi di colpa che non accetta l’idea che il gioco continui. La sua scelta di tornare non nasce più dal desiderio di vincere ma dalla missione di distruggerne il meccanismo dall’interno.
Parallelamente il Frontman consolida la sua figura di personaggio ambiguo e carismatico. Non è più solo una maschera glaciale, ma un antagonista con una propria filosofia: per lui il gioco è la rappresentazione più autentica della natura umana, dove la meritocrazia è sì brutale ma sincera.
Le nuove sfide, ancora più spietate delle precedenti, non mettono alla prova solo il corpo ma anche la psiche, i soliti giochi infantili vengono trasformati in meccanismi di manipolazione psicologica dove la fiducia nell’altro diventa un’arma e il tradimento una necessità. I giocatori rimasti lottano, cadono e si distruggono in un crescendo di tensione che lascia lo spettatore senza respiro. Nonostante tutto però, oltre il sangue versato e la crudeltà spietata, emergono piccoli gesti di solidarietà e pietà che fanno da contrasto al trionfo della violenza che ha caratterizzato questa serie per tute e tre le stagioni.

Qui vediamo un Gi-Hun completamente trasformato sia nell’aspetto che nel carattere. Ha perso il sorriso disperato della prima stagione e la determinazione della seconda. Orma si sente stanco e sconfitto ma nonostante tutto continua a lottare fino all’ultimo, sacrificandosi non per il guadagno ma per il suo ideale di giustizia. Il suo resta un bellissimo percorso fatto di sensi di colpa, sofferenza e infine redenzione. Gi-Hun non è un personaggio che lo spettatore riesce a lasciar andare facilmente perchè da sciocco quale sembrava nei primi episodi è riuscito a conquistare i cuori di tutti con la sua determinazione.
Dall’altro lato il Frontman si conferma una figura enigmatica e cinica, in perfetto contrasto con la purezza di Gi-Hun. In lui vediamo ciò che Gi-Hun potrebbe essere se solo cedesse alla disperazione e alla tentazione del denaro. Il loro duello finale è più simbolico che fisico, le due visioni del mondo e della società che si affrontano senza compromessi.
I personaggi secondari inoltre non sono stati da meno e hanno brillato tutti per essere riusciti a dare voce alla vera condizione umana di persone disperate che non hanno più nulla da perdere. Questa ultima stagione più delle altre ci ha mostrato madri, padri, figli e individui segnati da debiti e traumi. Alcuni hanno scelto il sacrificio e altri la brutalità, ma ognuno ha raccontato un frammento serio e reale della società.
Anche la neonata alla fine, per quanto possa sembrare una scelta forzata e surreale, ha il suo senso narrativo: rappresenta il peso di una responsabilità collettiva e il futuro con la possibilità di sperare in un mondo diverso, in un cambiamento serio e drastico per le generazioni che verranno.

Per quanto riguarda lo stile, anche la terza stagione mantiene quello delle prime due fatto di colori saturi, geometrie disturbanti e contrasti visivi tra l’infantile e il mortale. Solo negli ultimi episodi i toni si fanno più cupi, e le scenografie più claustrofobiche. Non più solo parchi giochi distorti ma ambienti che ricordano più una prigione. La fotografia alterna momenti di alta brutalità a silenzi rarefatti dove il volto dei protagonisti diventa più eloquente di qualsiasi parola o esplosione di violenza. La regia lavora molto sul tempo, dilata l’attesa e costringe lo spettatore ad assorbirne tutta la tensione prima di mostrarla sullo schermo.
Il cuore di questa ultima stagione non sono più i giochi quindi ma ciò che essi rappresentano:
Ogni prova è la metafora del nostro presente: dalla meritocrazia tossica che trasforma la vita in una costante competizione, al dibattito socio-economico che schiaccia sia individui singoli che famiglie e infine la spettacolarizzazione della sofferenza con i VIP che osservano le morti come semplice intrattenimento, specchio inquietante della nostra epoca dominata dai reality e dai social che creano una costante distorsione di come la realtà dovrebbe essere percepita.
Nonostante tutta la crudeltà e il cinismo comunque, questa ultima stagione trasmette molta speranza nata dalla consapevolezza e dal sacrificio. Il gesto finale di Gi-Hun e il modo in cui sceglie di interrompere il gioco è la chiave di lettura di tutta la storia: “non siamo cavalli da corsa, siamo essere umani”.

Dietro la crudezza delle immagini poi si nascondono curiosità interessanti.
La terza stagione per esempio era stata inizialmente concepita come parte della seconda, ma divisa per motivi produttivi.
La scelta di inserire un neonato come simbolo narrativo, anche se all’apparenza forzata, è stata così spiegata dal regista: “Se Gi-Hun lotta, non lo fa per se stesso ma per il bambino, che è ciò che dobbiamo proteggere, altrimenti il mondo non avrà eredi”.
I set sono tutti completamente costruiti a mano ed è stata evitata la CGI (utilizzata solo per il primo piano del bambino per motivi legali). Questo, ha spiegato il regista, ha aiutato molto gli attori ad esprimere emozioni genuine dato il senso di claustrofobia e terrore. Anche lo scenario dello Sky Squid Game è stato costruito a 15 metri di altezza.

L’unica nota stonata di questa splendida conclusione di una serie innovativa e geniale, che ha portato milioni di persone in tutto il mondo ad avvicinarsi con molto interesse allo stile narrativo coreano, è il cameo non necessario di Cate Blanchett nei panni di un reclutatore americano che gioca a Ddakji in un vicolo e viene notata dal Frontman.
Questi pochi secondi non sono stati apprezzati dal pubblico in primis perché Squid Game con le sue regole e le sue atrocità ha senso solo in Corea dove è stato pensato da una piccolo gruppo di super ricchi per “epurare” la società da quelle persone ritenute “inutili” che è un discorso molto forte e inconcepibile per gli occidentali. In secondo luogo, se Squid Game deve essere esportato deve essere anche adattato allo stile di vita a cui gli occidentali sono abituati sin da bambini e quindi non può essere utilizzato il Ddakji per reclutare un americano per il gioco, perchè è un gioco per bambini esclusivamente coreano.
Hwang Dong-hyuk con questa terza stagione quindi ha mantenuto intatto il suo potere di provocazione e il suo successo lo conferma. Ancora una volta è stata per mesi tra i contenuti più visti di Netflix, monopolizzando il dibattito globale. Con il finale di Squid Game non si chiude solo la una storia ma un’epoca televisiva. Questa opera resterà nel tempo come simbolo capace di raccontare con brutalità e poesia le contraddizioni della società. Il finale non è consolatorio, non regala vittorie facili e nemmeno il lieto fine, ma non poteva essere altrimenti ed è perfettamente coerente con lo spunto di riflessione che si voleva lasciare allo spettatore.






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