Lo spettro della dittatura militare, una delle più terribili del dopoguerra, continua a essere evocato in tanta filmografia argentina contemporanea. Il regista Pablo Trapero non fa eccezione, e già ci aveva riportato all’atmosfera agghiacciante dei primi anni ottanta nel grande Paese sudamericano con Il Clan, vincitore del Leone d’Argento a Venezia nel 2015. Adesso è uscito nelle sale italiane Il Segreto di una Famiglia, anch’esso presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2018. Il film è ambientato ai giorni nostri, ma il regime ha portato con sè una devastazione difficile da dimenticare, e come un fantasma innominabile, continua a incobere sul presente.
Il Segreto di una Famiglia è un mistero che arriva appunto dal passato a turbare le vite già spezzate e distorte di una famiglia matriarcale. Eugenia e Mia sono due sorelle dalla somiglianza inquietante, le cui vite sono state divise dall’Oceano Atlantico e dal diverso imprinting lasciato loro dalla madre. Dopo quindici anni di separazione, Eugenia torna alla grande hacienda argentina, vicino a Buenos Aires, al capezzale del padre colpito da un ictus. Per le due sorelle è l’occasione per ritrovare un’intimità di corpi e di ricordi dal sapore incestuoso, intreccio palpitante di gambe, labbra, mani e seni che sembrano appartenere a un’unico essere e dove la somiglianza tra le due donne ne esalta l’erotismo.
La scena sensuale e scioccante della masturbazione condivisa tra Mia ed Eugenia arriva quasi subito all’inizio de film, quale prodromo alla tonalità rovente della storia. Complicità erotica e similitudini del sentire, accostati a un’impressionante somiglianza fisica, allungano un’ulteriore ombra di ambiguità sulla vicenda, apparentemente semplice, di una famiglia che si riunisce per assistere il padre Augusto, sconfinatamente amato da Mia e portatore di un terribile segreto storico e personale. La vicenda si complica quando da Parigi arriva il marito di Eugenia, e un altro uomo si infila nel suo letto.
La scoperta dei segreti legami erotici che confondono e intrecciano ulteriormente la vita delle due sorelle trascina il film in un’altalena di melodramma e ironia farsesca cui il nome dell’immensa tenuta di famiglia, La Quietud (la quiete), aggiunge un ulteriore tocco sarcastico. Per un attimo, negli improvvisi cali di corrente elettrica che costringono reiteratamente la grande sala da pranzo nell’oscurità, si avvertono lampi del cinema di Buñuel.
Forse Trapero si sente più a suo agio con ricostruzioni storiche asciutte e prive di retorica come ne Il Clan, e i toni d’ombra dell’intimità femminile, dove gli unici tre personaggi maschili si perdono e sbiadiscono, sembrano sfuggirgli di mano. La regia diventa incerta e lascia perplesso lo spettatore, sballottato tra il mélo, l’erotico e il farsesco. Anche l’uso scanzonato dei brani della colonna sonora, giocando al contrasto, finisce per far parte della sovrapposizione stilistica.
Peccato per un film con tre splendide interpreti femminili, che raggiungono con intensità i toni alti del dramma, subito stemperati in un sorriso. Forse la giusta lettura sta nel tentativo di Trapero di dare una svolta personale al cliché del mélo, introducento una nuova nota di leggerezza.
Eugenia (Bérénice Bejo) apparentemente più ottimista e allegra, scopre poco per volta una nevrosi sedimentata negli anni sotto i rancori e le gelosie, e sembra assistere attonita e impotente alle continue e violente contrapposizioni tra Mia (Martina Gusman) e la madre Esmeralda, impersonata dalla grande attrice Graciela Borges, che negli anni sessanta fu l’interprete argentina più famosa della sua epoca, attrice di grande talento e donna di incomparabile bellezza.
Peculiare come anche la sua presenza nel film sia un’allusione implicita al passato, a quel passato di cui l’Argentina reca una cicatrice indelebile. Graciela, che si chiama in realtà Zabala, non potè usare il suo cognome nella carriera di attrice per la proibizione del padre aviatore, e fu il poeta Jorge Luis Borges, che visse un controverso rapporto con la dittatura, a prestarle il suo.
La storia si ricompone alla fine con il patto inscindibile di intimità e di sangue rinsaldato tra Eugenia e Mia, che chiudono i cancelli della fazenda come si spranga una porta sul passato.
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