Jean Dujardin, dopo essere stato OSS 117, torna in gran forma tra lo ombre della spy story di J’Accuse (L’Ufficiale e la Spia), al servizio di un racconto che svetta tra le produzioni cinematografiche correnti per la preziosità della costruzione drammaturgia e lo sguardo sdegnato e solenne. Diretto da Roman Polanski, lucido rabdomante del racconto cinematografico e profondo interprete del suo tempo, il nuovo film del regista polacco oggi ottantaseienne è uno dei suoi esiti più imprescindibili, la cui drammaturgia inesorabile mette a nudo l’inquietudine di fine Ottocento, restituendo gli umori, le tensioni di una società di cui il caso Dreyfus fece affiorare le caratteristiche più oscure.
Sono davvero rari i film in grado di cogliere le inquietudini del tempo: J’accuse fa il paio con un altro esemplare film recente, Tramonto di Làszlò Nemes, per la capacità di cogliere l’ambiguità di un’epoca prima dei tenebrosi collassi e delle guerre. Otto anni dopo Carnage e con una precisione formale che ha rari precedenti (Barry Lyndon, propriamente citato nella sequenza del duello che conclude il racconto), Polanski torna alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica portando sullo schermo l’adattamento del romanzo An Officier and a Spy di Robert Harris, racconto che si ispira a sua volta al caso di Alfred Dreyfus, condannato in vita per un crimine di cui non aveva responsabilità e sottoposto a una vera e propria campagna antisemita.
L’illuminismo della coscienza: L’ufficiale e la spia, il film raro di Roman Polanski
Il drappo teso del film di Polanski si annoda con presa perturbante attorno allo spettatore che assiste a un viaggio impietoso nel tempo, tra la burocrazie e le meticolose contromosse dell’esercito francese, in cui più che l’orrore de Il pianista cresce lo sgomento dell’impotenza dinanzi alle ingiustizie rappresentate. Il cineasta si riconosce parzialmente nella figura di Dreyfus, e l’elemento personale è evidente nell’indignazione verso il sistema giudiziario corrotto o prevenuto verso gli ebrei: lo stesso cineasta ha avuto modo di confrontarsi con le ombre del sistema giudiziario, mentre alla recente Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia il film ha ricevuto il Leone d’Argento al seguito di una polemica dissennata che ha finito paradossalmente per condizionare una giuria disposta a dare la precedenza all’innocuo Jocker (Leone d’oro 2019).
Polanski con J’accuse gira in esterni, filmando la capitale francese di cui coglie splendori e bassezze, luci e grigi in un dramma dell’indifferenza, dove il bravissimo Louis Garrel è il protagonista primo di un’umiliazione che inizia sin dalla prima sequenza, quando il suo Alfred Dreyfuss viene pubblicamente degradato e condannato a scontare sull’Isola del Diavolo colpe mai commesse. Si esce dall’oscurità grazie al punto di vista di George Piquard, illuminista della coscienza che smuove le carte della contraffazione quando, una volta eletto come nuovo capo dei servizi segreti dello Stato Maggio dell’Esercito francese, scopre le lacune e la fretta che decretarono la condanna illegittima contro Dreyfuss, ottenendo le prove contro un altro ufficiale quando Dreyfuss è ormai diventato il perfetto e intoccabile capro espiatorio.
L’indagine diventa una lezione di Storia e di cinema, il racconto della Terza repubblica francese che sfodera l’eleganza e la lucidità coraggiosa di uno Zola: scrittore che potrà dare il via al pensiero libero denunciando la compromissione del sistema giudiziario e militare dando voce alla denuncia di Piquard, un uomo solo che mise a rischio vita e carriera per la sua battaglia in onore di verità e giustizia. La passione formale di Polanski disegna una scena di polveri e convenzioni dietro cui scorre la parata di individui corrotti e viscidi, al servizio di un racconto efficace dove la principale presenza femminile, interpretata da Emmanuelle Seigner, è il volto di una relazione scomoda per l’irreprensibile protagonista ma al contempo promessa di speranza, di pensiero non imbavagliato e anti-convenzionale (il matrimonio visto già come una regola dell’altro secolo).
Film coraggioso, appassionato e rigoroso, punta il dito contro l’antisemitismo collegando la Francia di fine Ottocento a quella attuale, lasciandoci come al risveglio da un sogno perturbante che ha il sapore cruciale dell’attualità. Meticoloso e da rivedere, J’accuse è arricchito dalla presenza di attori eccellenti quali Mathieu Amalric e Olivier Gourmet, perfetti nei loro ruoli di individui senza qualità.
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