Gli anni Novanta di Clint Eastwood partono con un lungometraggio che all’uscita viene maltrattato dal box office, ma tra i film di Eastwood Cacciatore bianco, cuore nero (White Hunter, Black Heart, 1990) è quello incentrato più scopertamente sulla figura del cineasta e sulla creazione filmica.
Nell’ispirarsi alla lavorazione del film La regina d’Africa (The Arican Queen, 1951) di John Huston, Clint Eastwood studia il libro di Peter Viertel che sceneggiò la pellicola e racconta la vicenda di John Wilson, regista americano di cui diventa anche l’interprete nella sua sedicesima regia ufficiale di un lungometraggio di finzione.
Wilson, con la fama di cineasta hollywoodiano egocentrico e spericolato, negli anni Cinquanta parte per l’Africa insieme allo sceneggiatore Pete Verrill (Jeff Fahey). Vi girerà un film il cui copione non è ancora stato completato e nello stesso tempo darà voce a una grande ossessione: uccidere un elefante durante un safari.
Eastwood senza infingimenti si mette nel ruolo di un regista e autore che doppia la vita e la biografia di uno straordinario cineasta, il John Huston che avrebbe realizzato Moby Dick, la balena bianca (Moby Dick, 1956).
Come lui (e come il personaggio interpretato da Gregory Peck), Wilson è un intrepido, ossessionato però dall’uccisione del venerato pachiderma per il quale rinvia continuamente l’inizio della lavorazione del film che ha in cantiere, mettendo in allarme tutta la produzione.
Il personaggio di John Wilson, con il suo ego smisurato, è un carattere caparbio e allergico all’ottusità umana, per il quale il safari in Africa diventa motivo di esplorazione delle corde tese che gli permettono di ridestare l’intensità della sua missione di cineasta creatore e insieme distruttore.
Violento e ostinato, Wilson è in combutta continua con il produttore e con il soggettista, che pure lo seguono, sapendo di avere a che fare con una personalità eccezionale.
La sua visione della vita si riflette insistentemente sui film che realizza, ed è complessa, ma scoperta e lampante.
Da una parte Wilson rivendica sul fronte cinematografico il bisogno di semplicità, sottolineandolo al suo più giovane sceneggiatore, ma al contempo le sue intemperanze seguono un’onda irruente, che allarma i suoi collaboratori, e il fuoco della sua passione lo porta ad essere una punta creativa di Hollywood ma anche il difensore di chi non si vende e conserva una visione personale che i film, coadiuvati da ottimi professionisti, possono permettere di comunicare al mondo.
Wilson porta in scena una sconcertante palude di contraddizioni che si ritrovano ancora più gravi tra gli atteggiamenti di alcuni individui bianchi come lui in Africa, e nei cui confronti sfodera il suo atteggiamento scomodo e serissimo: sfida a pugni un direttore d’albergo che tratta gli africani come persone inferiori e insulta una star di Hollywood per il suo sdegnato antisemitismo.
Assume una guida per uccidere l’elefante e la luce ossessiva che accende il suo animo si colora di una frenesia sfidante, mentre lui stesso fatica a capirsi. In un mondo normalizzato, Wilson ascolta il richiamo del coraggio e della sfida, vivendosi come un moderno Achab in attesa di una prova persino blasfema: come quella di uccidere un animale sacro e meraviglioso che Wilson riconosce non essere soltanto un gesto delittuoso, ma un peccato a cui un’anima contorta e inquieta come la sua non sa sottrarsi.
Un regista che fa film personali, che si augura di poter realizzare almeno cinque o dieci film importanti, viaggia in una direzione di costante prossimità con la morte (fisica, artistica, commerciale), ma non può fare a meno di rivelarsi anche e soprattutto un essere umano in carne ed ossa, con le sue fragilità e quella tosse che lo segna e lo fiacca (l’inseparabile sigaro segna l’immagine e il fisico del cavaliere senza nome adesso divenuto ufficialmente l’uomo dietro la macchina da presa).
Eastwood si confessa al pubblico e al cinefilo in Cacciatore bianco, cuore nero. Con humor si ritaglia la parte del protagonista ed è un individuo che non cerca trucchi, che porta i suoi collaboratori a pochi metri dalle pericolose rapide per “provare” la tenuta di una barca, che sfida la mancanza di coraggio dei suoi colleghi indicando la via maestra di un confronto con il proprio individualismo che non può fare a meno di un banco di prova corale.
L’Africa si rivela luogo di un rapporto con la natura che metterà l’egocentrico cineasta dinanzi alla disillusione. Dinanzi all’animale che si presenta, maestoso e furente, a pochi metri da lui, Wilson esita a sparare, e l’animale indietreggia. La morte e il sacrificio paiono evitati. Poi però muore la guida che vuole difendere il padrone, e da lì in avanti John Wilson troverà il coraggio per iniziare il primo ciak.
Il cinema non può non filmare le nostre ossessioni ma anche le nostre sconfitte e Cacciatore bianco, cuore nero porta in scena, oltre che le intemperanze, soprattutto l’ambizione letteraria oltre che cinematografica di Eastwood. Alla base c’è infatti c’è l’omaggio alla scrittura libera e immaginativa di scrittori come Hemingway, che il cinema può coraggiosamente adattare guardando al cuore nero dei personaggi, ai desideri inconfessati e all’ombra che risale sulla china della coscienza.
L’ultima immagine inquadra il volto di Wilson/Eastwood, reduce dalla missione di caccia in cui ha perso la vita la sua guida, e Cacciatore bianco, cuore nero, confermando la maturazione come regista di Eastwood, si conclude con un nuovo inizio che ciascuno saprà immaginare a suo modo. Dopo l’incisiva ricostruzione biografica e musicale di Bird che ha stupito un po’ tutti per sensibilità e gusto, Eastwood si conferma un autore in grado di mettersi in gioco e di guardare coraggiosamente avanti seguendo una traiettoria che negli anni Novanta presenta sorprese e gemme davvero inaspettate.
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