In Gran Torino (id., 2008) Clint Eastwood dirige e interpreta il settantasette Walt Kowalski, un burbero che ha perso da poco la moglie, ha due figli che lo trascurano e lo sopportano solo pensando ai soldi dell’eredità mentre vorrebbero rinchiuderlo in un ospizio.
Quella di Walt è una solitudine tormentata, lenita da qualche birra, dalla compagnia del cane Daisy e dalla sicurezza che gli viene dalla sua amata “Gran Torino” del 1972, l’auto d’epoca marcata Ford, azienda simbolo stelle strisce per la quale egli ha lavorato a lungo. Egli facilmente s’incendia, ad esempio con i vicini “musi gialli”, come è solito definirli (e al personaggio Eastwood non risparmia una sottolineatura ironica).
Il risentimento verso il “diverso”, per lui ex-reduce della Guerra in Corea, è pronto a esplodere quando il giovane Thao della famiglia di vicini di casa “hmong” è scoperto nel gesto di rubargli la sua “Gran Torino” ed egli, per farsi giustizia, afferra il fucile prontamente a portata di mano. Ma in nome dell’amicizia con Sung, la sorella di Thao la quale non è certo una stupida ma è anzi una giovane donna pronta a mettersi in discussione e a tessere la ragioni di una sana e naturale convivenza tra culture che non rinnegano le loro radici, Walt è costretto ad accettare l’offerta della famiglia del giovane ladro che si propone di farsi perdonare del tentato furto. Il ragazzo si metterà al servizio di Walt, sarà a sua disposizione per vari lavoretti e finirà inaspettatamente per essere oggetto dell’attenzione sincera dell’anziano scorbutico, il quale dovrà riconoscere a un certo punto di avere forse più elementi in comune con i “musi gialli” suoi vicini di casa disposti a donargli cibi e rispetto piuttosto che con i suoi familiari bramosi di vederlo finire in un geriatrico.
Dinanzi ai simboli di una giovinezza che ha bisogno di guide (Thao) e, non a caso, di giovani donne come Sung che cercano di difendere il dialogo e la condivisione nel segno della comprensione reciproca, il vecchio Walt ritrova motivazioni a sufficienza per dare il suo contributo a questi ragazzi che gli offrono l’occasione di cambiare prospettiva, di liberarsi da un destino in un ospizio per agire come un anti-eroe pronto a tutto per vincere una guerra più sensata, quella di una nuova responsabilità sociale, lui che in Corea ha ucciso anche dei ragazzini e il cui tormento lo conduce a guardare con lucidità il presente e la sua condizione.
L’analisi di Gran Torino si traduce in una fotografia realistica del padre di famiglia americano che nell’armadio ha archiviato omicidi tremendi, di un’America dedita alle armi che adesso trova il suo ingombrante paladino posto dinanzi alla possibilità di una scelta: morire nel tormento di ricordi incancellabili offuscati da una fierezza sdegnata oppure prendere un’altra via. E l’altra via per Walt significa mettersi al servizio dei giovani, come la decisione di educare il giovane Thao alla vita instillandogli responsabilità e modi utili per affrontare i grandi e i coetanei bellicosi ma permettendogli anche di formarsi un temperamento. Una via che è quella della comprensione reciproca, con l’assunzione delle responsabilità verso gli altri, i “musi gialli” che non sono così diversi da lui e che egli percepisce come l’occasione per un suo ultimo grande impegno, un comportamento sacrificale in cui le armi non occorreranno più, ma sarà proprio la violenza delle armi dei giovani delinquenti che segnano il clima sociale del quartiere ad essere destituita di senso, ad essere condotta dinanzi a un ultimo duello in cui proprio chi ha la pistola in mano si ritroverà sconfitto.
Impietoso tanto con il suo personaggio quanto verso lo spettatore, Clint Eastwood scandaglia la scena in una disamina complessa del reale affinché possa emergere la dimensione tragica di Walt Kowalski di cui rivela la scelta sacrificale. Essa diventa il contributo alla società futura di un uomo che si scopre malato ma con un’occasione per liberarsi dai pesi della coscienza e di partecipare, come un padre vero, al futuro dei giovani “hmong” a cui lascerà in dono la sua stessa vita in cambio di un loro futuro non segnato dalle incomprensioni del passato. Con il suo gesto, con il suo ultimo sacrificio, la Storia evidentemente potrà cambiare, e con il suo cinema profondo e affilato Clint Eastwood ci ricorda che gli eroi sovente non calcano scene ufficiali, muoiono nell’ombra, in silenzio, tra le trincee che hanno contribuito a costruire e che Gran Torino orgogliosamente si propone di smantellare fornendo un formidabile granello in quel ponte tra culture e generazioni che il cinema più recente del regista manifesta di voler edificare.
Un film esemplare, sofferto, lancinante, che assieme a Mistic River, Million Dollar Baby, Lettere da Iwo Jima, disegna al meglio una riflessione sull’americano bisognoso di un nuovo sguardo sulla società, affinché la società nuova sia attenta alla molteplicità di culture e alle differenze senza per questo dimenticare errori e ragioni dettati dai punti di vista del passato. Un cinema anche laconico e vibrante, dove i caratteri difficili trovano cittadinanza e sfumature, meticolosamente attento ai dettagli e alle motivazioni personali ovverosia in grado di suggerire una partecipazione adulta, dialettica, in grado di interrogare e di continuare a proporre, con efficacia ed eleganza, un viaggio tumultuoso e fisico che non risparmia affondi impietosi ma ritrova la compostezza della riflessività.
Lascia un commento