Il racconto di Sully (id., 2016) prende avvio con il decollo di un aereo della US Airways dall’aeroporto di LaGuardia con 155 persone a bordo. È il 15 gennaio 2009 e il pilota, “Sully” Chesley Sullenberger (Tom Hanks), è un ex Air Force il quale “ha trasportato gente solcando il cielo per 40 anni, ma verrà comunque giudicato solo per quei fatidici 208 secondi”. Tanto poco è il tempo che impiega uno stormo di uccelli a colpire l’aereo danneggiandone irrimediabilmente i due motori: 208 secondi in cui Sully, affiancato dal co-pilota Jeff Skiles (Aaron Eckhart), prende la decisione che sente come l’unica possibile per salvare i 150 passeggeri, cioè fare atterrare l’aereo non su una pista d’atterraggio ma nel bel mezzo del fiume Hudson.
Secondo i regolamenti l’aereo dovrebbe essere indirizzato all’aeroporto più vicino, ma in Sully, film che mette nella giusta luce di riconoscenza chi sa prendersi le proprie responsabilità, si guarda alla condizione del pilota interpretato con asciutta adesione da un perfetto Tom Hanks, uomo destabilizzato dal destino come altri personaggi del cinema di Eastwood.
Con la vicenda di Sully, che le immagini conducono sino all’esperienza giovanile nell’Air Force, si fa strada il ritratto di un individuo umanista attraversato dai flussi di coscienza, a cui compete di conservare l’equilibrio nelle situazioni più difficili. Ciò gli è possibile non aderendo ai precetti in maniera acritica ma seguendo un istinto che gli dice cosa deve fare. Così, sul quel famigerato volo, Sully sente che deve cambiare rotta, e il film propone lo sguardo diretto che è proprio del suo protagonista, il quale con il suo ammaraggio salva la vita a tante persone e si ritrova tutto d’un tratto un eroe. Ma è evidente che a Eastwood non interessa principalmente l’eroismo degli uomini d’azione senza macchia ma invece di raccontare una vicenda attraverso lo sguardo di un pilota dalla lunga esperienza che ripiomba lo spettatore nel trauma dell’11 settembre e degli aeroplani divenuti killer attentatori per migliaia di persone.
Immergendosi dentro un trauma collettivo, Sully diventa colui che “porta una buona notizia a New York, e ne aveva bisogno, soprattutto se si parla di aerei”, ma a quella buona notizia sembra che a un certo punto, in un clima di lucido disincanto quanto non addirittura di mortifero disfattismo, non sia davvero possibile credere fino in fondo. Lo stesso pilota si ritrova a vivere l’incubo del suo aereo che precipita e trapassa un palazzo, e l’ossessione del perdere quota, del precipitare, si affianca al dubbio che viene alimentato ad arte dal National Transportation Safety Board, l’organismo di controllo governativo incaricato di occuparsi di investigazioni sugli errori nei voli per ragioni di sicurezza, che a un certo punto, proponendo varie simulazioni, indica che la decisione di Sully fu avventata. Secondo i computer e i periti non ci sarebbe stata la necessità di prendere in un attimo una decisione che avrebbe potuto causare la morte di decine di persone. Ma il fattore umano, a cui Eastwood è interessato in questo film dalla struttura narrativa per nulla convenzionale, diventa determinante per valutare la decisione di Sully e probabilmente anche per comprendere che nessuna simulazione può davvero permettere di veder riprodotta autenticamente la condizione di un pilota che si trovò a fare la differenza realizzando l’evento straordinario di un gesto umano. Lui ha avuto soltanto trentacinque secondi per vivere l’insight dell’unica possibile scelta, per quanto apparentemente avventata, che il panico da lui gestito avrebbe altrimenti condotto a una soluzione di routine probabilmente fatale. Nei giorni successivi all’ammaraggio – un evento che nel film viene proposto a metà racconto e in flash-back quando già sappiamo come è andata evitando così qualunque calcolato effetto di tensione culminante nell’atterraggio di fortuna – il pilota, pur reduce da un gesto di sbalorditiva abilità, si sente attraversare dal dubbio.
Un’inquietudine ossessiva per lui il quale è stato l’ultimo a lasciare l’aereo preoccupandosi che ciascun passeggero fuoriuscisse dall’abitacolo sospeso sulle acque. Un’ossessione che scorre davanti ai suoi occhi con l’immagine dell’aereo che si schianta contro un grattacielo newyorkese, disorientandoci come è disorientato Sully che vive soltanto un incubo sognato la notte successiva alla sua impresa. Torneranno altre visioni catastrofiche e infine la percezione di sgomento di aver forse potuto sbagliare quel giorno, un’intima interrogazione riscattata poi dalla riconsiderazione del suo gesto che trova infine proprio negli accaniti e cattivi impiegati dell’ufficio governativo coloro che, cadendo sulle defaillances delle loro stesse pretese, renderanno manifesta la non affidabilità delle loro presuntamente perfette perizie basate sulle simulazioni. Scivoleranno nella loro stessa inautenticità a confronto con un individuo che primeggia incarnando “semplicemente” il fattore umano.
Eastwood, a cui piace che nell’udienza finale siano proprio coloro i quali dubitano di Sully a restituirgli la natura umanamente eroica, riesce a condurre asciuttamente un film che affronta con piglio analitico la realtà difficile di un rapporto tra l’individuo e il collettivo. Evitando di estetizzare mediaticamente l’eroismo, il cineasta ritrova in Sully la qualità di un cittadino per il quale la tempesta onirica fa il paio con il lavoro della memoria che riprocessa il senso del suo gesto. Disorientato, afflitto dal pensiero che forse avrebbe potuto seguire la procedura ordinaria, Sully avverte che le cose non sono andate come le raccontano i malfidati guastafeste dell’organo di controllo governativo, i quali sicuramente lottano affinché nessun risarcimento possa venire legittimamente elargito. Il suo riscatto, ottenuto con la pacatezza di una persona davvero in grado di ritrovare l’equilibrio necessario nelle situazioni più difficili, è l’esito di una schiettezza che rammenta come la più razionale facoltà di scelta spetti sempre all’uomo, nonostante la società delle macchine e le troppe paranoie che segnano nel profondo, specie negli ultimi tempi secondo lo sguardo sul contemporaneo del cinema di Eastwood, anche le persone abituate a mettere la propria soggettività al servizio degli altri.
Il pilota interpretato da Tom Hanks risponde al finale riconoscimento della sua eccezionalità di individuo indicando tuttavia di non essere stato il solo ad aver commesso il gesto della virata salvifica, essendo la sua decisione una decisione di squadra, seppure condotta da un uomo. Un riconoscimento di comunanza e appartenenza che il cinema di Eastwood rinsalda nel suo immaginario di anti-eroi inclini a definire una dimensione umana di solidarietà e comprensione che ricaccia tra le parole vacue le accuse di estremo individualismo talvolta rivolte al suo cinema.
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